Un inedito di Antonio Delfini
(«Ermanno Vanni», Modena, 13 dicembre 1962)

NON HO MAI CAPITO - e forse non capirò mai - come si faccia a scrivere di 
pittura (d'arte in genere), parlando proprio dell'oggetto di cui si vuol 
parlare. Arti e Lettere sono cose talmente lontane l'una dall'altra.
Chi è mai riuscito a essere un buon critico d'arte?
Chi, si dice, ci riesca, è in genere un truffatore e un narciso che pensa più a 
quello che scrive che al pittore a cui si intende parlare.
Lasciamo lontani dal nostro pensiero quei professori che hanno fatto gli studi 
universitari (o che non li hanno fatti), i quali si sentono critici d'arte e ti 
propinano un lungo elenco di parole incomprensibili; parole, cioè, che non hanno 
nulla di semantico, incapaci col segno dello scritto di farsi capire: quan-do il 
meno valido pittore si era già fatto capire da tutti coi propri segni pittorici!
A me, quando penso di dover scrivere di pittori, viene sempre in mente 
Baudelaire, l'unico letterato forse che abbia detto dei pittori quel che voleva 
dire.
Conosco Ermanno Vanni da molti anni (molti di questi anni). Assai, assai più 
giovane di me, cominciai a legare con
lui di una certa amicizia non solo per-ché era un pittore: ma, e soprattutto, 
perché era ed è un divertentissimo compagno. Talmente spassosa la sua compagnia 
fatta di narrativa e di recitazione, da farmi dimenticare, in un primo tempo, 
la pittura !
Male per me come critico d'arte!
Ricordo i primi quadri di Vanni, visti da me nello studio di Via Postavecchia. 
Ed erano ragazze-bambine un poco orientali, di un oriente-egiziano moderno. Ma 
in realtà erano pupattole modenesi del secondo dopoguerra; pupattole di un mondo 
a me totalmente sconosciuto. In definitiva quelle pupattole erano sconosciute a 
tutti: soltanto Vanni le aveva viste, le aveva conosciute. Poiché, un giorno, 
spiando da piazza San Domenico le ragazze che entravano nel suo studio, non mi 
riuscì di individuarne una che avesse un po' di somiglianza con le pupattole 
volitive e sognanti di quei quadri.
Quanti quadri ha dipinto Vanni dopo quelle pupattole di uno stile nuovo 
moderno-egiziano che si accomodava tra il douanier Rousseau, Picasso, Gauguin e 
Bonnard? Quanti paesaggi d'après e d'avant nature, visti, sognati, trapelati, 
ricordati, astrali e inventati! Quante cose fino all'astrattismo!
Egli arrivò, in questi ultimi anni, alle soglie o ai margini dell'astrattismo. 
Ma la sua natura umana, fisica e visiva, si ribellava inconsciamente 
all'indirizzo della nuova pittura di massa. Risorgevano così le sue fanciulle 
accompagnate da vecchie col ricordo della sua nonna.
Sono fanciulle velate e fantomatiche di una grazia che si aggrazia nella sua 
nuova tecnica del foglio strappato a una gelatina che lui solo sa preparare: una 
gelatina che è la stamperia di un pittore che sogna; e vuole, senza sognare, 
realizzare una realtà che si realizza fantomaticamente nelle sue mani di 
artigiano.
Bravo Vanni!
Soltanto che non riusciamo a dimenticare i suoi paesaggi-nebbia del Delta 
padano, di quel lontano paese, distante pochi chilometri. Paesaggio nuovo per 
l'Italia, nuovissimo per l'Europa, inedito per gli esploratori dell'Africa.
ANTONIO DELFINI