Castelmeteo. Un sito dedicato a Castelvetro di Modena,  meteorologia, arte, gallerie di foto antiche, moderne e la storia dell'antica fornace. A cura di Vinicio Cavallini


LA MIA ARGENTIERA



Non è mai facile raccontare la storia di un paese, perché essa è l'insieme di fatti e di comportamenti, è l'unione di fatti che generano comportamenti e di comportamenti che generano fatti. E spesso è difficile distinguere gli uni dagli altri. I ricordi poi si accavallano nella mente e si fa fatica a rimetterli in ordine cronologico. La mia struttura mentale, inoltre, è tale per cui rimuovo molto del mio passato. Ci sono persone che ricordano perfettamente i primissimi anni di scuola, mentre io non ricordo nulla. E' vero che il primo anno lo feci da auditore, ossia da privatista; avevo cinque anni e non potendo perciò frequentare la regolare prima elementare, dovevo andare a lezione privata e poi fare l'esame per superare il primo anno e poter essere iscritto regolarmente al secondo anno all'età di sei anni. Dato che sono nato nel 1943, quando ero auditore correva l'anno 1948/49: Quanto tempo fa! Non c'erano difficoltà perché facessi le lezioni private dal momento che abitavamo di fianco alla signora Noce le cui tre figlie erano maestre ed insegnavano nella nostra scuola. Non ricordo quale di loro mi fece lezione o se addirittura io frequentassi ugualmente le lezioni a scuola, in forma, diciamo, ufficiosa. Abitavamo sopra la Cantina: noi, la famiglia Noce appunto e dall'altra parte la famiglia Zannin, la famiglia Ceraulo, e, poco più in là, zia Speranzica e mastro Eligio.

Il mio paese era una miniera. Una miniera non ha niente a che vedere con un paese: é una comunità nella quale la gente proviene da tanti posti diversi, quindi cosmopolita; la struttura di una miniera è diversa da quella di un paese: le case sono differenti e disseminate un po' qua e un po' là senza uno sviluppo logico che possa portare alla formazione di strade regolari e di piazze come appunto succede in un paese. La caratteristica cosmopolita significava anche che non esisteva un dialetto unico per tutti, la lingua comune era l'italiano. C'erano infatti persone di Sassari, di Alghero, di Sorso, di Portotorres, del Nuorese, del Cagliaritano, e poi c'erano veneti, toscani, siciliani, milanesi; ogni tanto circolavano anche francesi e belgi. La Cantina era l'unico negozio dove si potevano acquistare i generi alimentari, frutta e verdura e, in un secondo tempo, anche scarpe e vestiario( solo dopo qualche anno fu concesso a dei privati di gestire un negozio di frutta e verdura e una macelleria ). Era gestita dalla Società proprietaria della miniera e al momento dell'acquisto delle merci non si pagava: ogni famiglia aveva un "libretto" nel quale veniva segnato dagli addetti, dipendenti della Società, tutto ciò che si acquistava. Alla fine del mese venivano effettuati i conteggi e l'importo che ne scaturiva veniva trattenuto dalle buste paga dei titolari dei libretti. Naturalmente c'erano spesso delle contestazioni da parte di coloro che nutrivano scarsa fiducia sulla serietà degli addetti alla cantina e talvolta succedeva alle famiglie più numerose o a quelle più spendaccione di superare la paga mensile e perciò di andare "di sotto" come si usava dire.

Per noi bambini andare a fare la spesa era il più delle volte una rottura di scatole perché bisognava fare la fila, ma talvolta era anche un divertimento perché si sentivano un mucchio di storie e di pettegolezzi. Lo spiazzo davanti alla cantina era il posto dove noi giocavamo ai vari giochi di quel tempo: al pallone, con il cerchio, alle cinque pietre, con i carretti costruiti dai bambini più grandi che non capivo mai come facessero a procurarsi i cuscinetti a sfera che mi attiravano tanto. Il gioco che mi emozionava di più era quello dei bottoni, che normalmente giocavamo davanti a scuola perché lì non passavano automezzi e quindi potevamo stare inchinati senza preoccuparci di ciò che accadeva intorno; Ninuccio era sicuramente il più bravo, quello che possedeva più bottoni in assoluto e quello che aveva i bottoni più rari, cosa per cui era invidiato da quasi tutti noi; consisteva nel riuscire a spingere il proprio bottone con le dita fino a farlo cadere all'interno di una buca chiamata "garicio": colui che riusciva in questo intento prima degli altri partecipanti vinceva tutti i bottoni in gara. Era insomma una specie di golf dei "molto" poveri!

Davanti alla Cantina la Società faceva accatastare talvolta i tronchi di legno che servivano poi per armare le gallerie e queste cataste erano il luogo ideale per giocare a nascondino, soprattutto nelle calde notti d'estate, quando i grandi si radunavano per chiacchierare e ascoltare storie incredibili raccontate il più delle volte da sig. Ceraulo.

Nelle sere d'inverno invece una delle cose che ci dava più emozione era andare a "rubare legna" ossia andare a raccogliere i pezzi di tronchi marci che erano stati tolti dalle gallerie ed utilizzarli nel caminetto di casa. L'emozione nasceva dal fatto che ci dicevano che era proibito prenderli e che se ci avessero trovato le guardie giurate sarebbero stati guai grossi! Non ho mai saputo se ciò fosse vero o se fosse una invenzione dei "grandi" per divertirsi nel vederci preoccupati dopo che eravamo riusciti a rubarne qualche pezzo. I tronchi bruciavano bene anche perché erano intrisi di sostanze velenose necessarie per evitare che fossero attaccati dai tarli quando venivano usati come "quadri". Il legname infatti serviva principalmente ad armare le gallerie, ossia a realizzare un arco (quadro) in legno che reggesse la volta della galleria stessa e ne impedisse il crollo sopra gli operai che lavoravano. C'erano perciò delle vasche piene di tali veleni nelle quali venivano immersi i tronchi prima della loro utilizzazione e noi non potevamo nemmeno avvicinarci a tali vasche data la loro pericolosità.

Del periodo in cui siamo stati "in cantina" i riferimenti principali erano l'ufficio di Babbo, il compressore e zia Speranzica con il figlio mastro Eligio: l'ufficio di Babbo era chiamato Ufficio Cottimi, perché lì si svolgeva il lavoro di conteggio delle ore lavorate dagli operai e delle quantità di minerale estratto da ognuno di loro: si chiamava cosi perché il lavoro era a cottimo, cioè più uno estraeva minerale nelle otto ore di lavoro e più era pagato; era l'applicazione del metodo Bedau (un Francese o Belga che aveva inventato questo modo di lavorare per far rendere di più gli operai). L'ufficio di Babbo è per me associato al ciclismo, perché durante il Giro d'Italia o il Tour de France ogni giorno ascoltavo alla radio l'arrivo della tappa e poi andavo da Lui per fare il resoconto, snocciolando l'ordine di arrivo con i minuti di distacco (allora l'unità di misura dei distacchi era sicuramente il minuto e non il secondo come oggi!), la classifica generale aggiornata e gli episodi più significativi accaduti nella tappa. Non entravo però nell'ufficio, mi fermavo vicino ad una piccola finestra che risultava molto bassa rispetto al terreno tanto che quasi mi dovevo coricare in terra per parlare con Babbo. Tutto ciò avveniva puntualmente ogni pomeriggio e questo incarico mi serviva per evitare di coricarmi dopo pranzo, cosa che odiavo sopra ogni altra. A casa di nonna questa mia idiosincrasia era motivo di scontro con zia Antonietta che voleva sempre che mi coricassi perché bisognava riposarsi o perché c'era la "mamma del sole" che mi avrebbe creato non so quali brutte cose! In realtà lei non voleva fastidi quando poi si sarebbe coricata, ma soprattutto non voleva che io passassi in continuazione in cucina e nel soggiorno mentre lavava in terra, cosa per la quale, mi dicono anche oggi, avevo proprio un talento naturale!

Andare da Babbo per il resoconto della tappa, significava dimostrare a me stesso molto coraggio dal momento che l'ufficio risultava alle spalle del temutissimo compressore. Serviva ad inviare aria compressa all'interno della miniera per fornire una giusta areazione agli operai che vi lavoravano (in seguito l'aria compressa servì anche per automatizzare alcune operazioni di scarico dei vagoni pieni di minerale che arrivavano dal pozzo). Aveva un grandissimo volano, penso almeno due metri di diametro, che già incuteva un po' di paura, ma la cosa che temevamo molto era il momento in cui veniva scaricata l'aria in eccesso perché il rumore che faceva era fortissimo, come quello di una bomba, anche se non c'era alcun pericolo. Quando si passava di fronte percorrendo la curva, detta appunto del compressore, nel momento in cui l'addetto scaricava improvvisamente l'aria lo spavento era grandissimo e, quando succedeva a me, mi mettevo a correre impazzito e mi ritrovavo in cantina senza nemmeno rendermene conto. La cosa incredibile era la fase di avvicinamento alla curva piena di ansia crescente mano a mano che mi avvicinavo, che faceva sì che io, ad un certo punto, effettuassi uno scatto da centometrista per superare il punto critico nel più breve tempo possibile; in definitiva la curva del compressore la percorrevo sempre di corsa, ad eccezione della domenica e dei giorni di festa nei quali in miniera non si lavorava e perciò il compressore era spento.
Credo che il momento in cui veniva scaricata l'aria fosse casuale o quantomeno dipendente da ragioni tecniche ma certamente qualcuno degli addetti talvolta lo faceva apposta, per divertirsi a osservare qualche persona che, spaventata, reagiva in modo curioso. Una delle persone soggette a questo scherzo era sicuramente zia Speranzica: viveva in una casupola posta in un piccolo promontorio sopra la curva del compressore e quindi di fronte al compressore stesso, con il figlio mastro Eligio, un fabbro che lavorava nell'officina meccanica che c'era a pozzo Podestà. Erano persone che non facevano niente di male ma stavano sempre bisticciando a voce alta e se ne dicevano di tutti i colori, rigorosamente in dialetto portotorrese quando erano sobri e in italiano quando erano ubriachi. Zia Speranzica spettegolava un po' di tutti soprattutto di quelli che la trattavano male e la prendevano in giro, ma devo dire che la nostra famiglia era da lei considerata una famiglia per bene perché non la offendevamo mai e perché quando la incontravamo salutavamo sempre in maniera educata: <<buon giorno zia Speranzica>>, e questo le faceva piacere. Io ero convinto che mastro Eligio fosse il marito di zia Speranzica; che fosse il figlio e non il marito lo scoprii abbastanza tardi, anche se li conoscevo da quando ero nato. Quando avrò avuto sei o sette anni, un giorno, ero in cantina nel reparto di frutta e verdura nel quale si trovava anche mastro Eligio che comprò tre carciofi: erano i primi della stagione e perciò qualcosa di raro e costoso; vedendo che io stavo per andare via mi disse: "vai e porta questi tre carciofi a mamma". Io andai a casa e dissi a mia madre che mastro Eligio mi aveva dato quei tre carciofi per lei; mamma si meravigliò un po' di tanta gentilezza ma poi non ci pensò più. Verso mezzo giorno venne a casa zia Speranzica a chiedere che fine avessero fatto i suoi carciofi, cioè quelli che, diceva, mastro Eligio mi aveva dato da portare a lei. Non ricordo se almeno uno lo avessimo già mangiato, fatto sta che dopo una lunga discussione tra me, mia madre e zia Speranzica scoprii che mastro Eligio era il figlio e non il marito di zia Speranzica e che perciò i carciofi erano per sua madre e non per la mia. Chiarito l'equivoco tutto si aggiustò, anche se non so se Mamma ricomprò e restituì alla legittima proprietaria il carciofo mancante.

Malgrado questo episodio increscioso(!) i rapporti con zia Speranzica e mastro Eligio rimasero buoni.
Devo dire , per la verità, che avevamo buoni rapporti con tutti anche perché le persone che ci vivevano accanto erano tutte buonissime.

Ero sempre di corsa, io non camminavo, correvo: era la mia passione, sia quando facevo "la moto", sia quando facevo le gare, che vincevo regolarmente; era anche qualcosa di utile perché quando qualche bambino più grande mi voleva picchiare, io avevo sempre la mia arma segreta che era fuggire, sapendo che l'aggressore difficilmente mi avrebbe raggiunto! però anche qualche problema l'ho avuto, come quella volta che mi sono "abbracciato" alla vespa di Mario Pala, mentre uscivo a tutta velocità dalla stradina di casa e lui percorreva la strada di fronte alla cantina in direzione di miniera vecchia. Mario Pala era l'infermiere dell'Argentiera che tutti i giorni faceva il giro degli ammalati che avevano bisogno di qualche iniezione o di qualche medicazione e che non potevano recarsi in infermeria. Già perché una miniera è uno stabilimento industriale, in questo caso lontano ben 40 chilometri dal più vicino ospedale, e quindi necessitava di un presidio sanitario con la presenza di un medico e di almeno un infermiere. Anche il medico faceva tutti i giorni il giro degli ammalati che erano costretti a letto per seguire il decorso della malattia. Il dottor Serra, così si chiamava il dottore che ho conosciuto io, era l'unico oltre al direttore della miniera a possedere un'automobile; era molto simpatico, abbastanza alto e magro come uno stecco, bravissimo pianista, che stava tutto il giorno lucidandosi la macchina dopo che aveva finito il giro delle visite.
Nell'incidente con la vespa di Mario Pala in realtà non mi feci nemmeno un graffio, solo un po' di spavento per cui me ne tornai a casa senza dire niente a mamma; dopo un po' arrivò Mario Pala a chiedere come stavo e mamma cadde dalle nuvole perché non ne sapeva niente!
L'altra volta che ebbi dei problemi a causa delle mie corse fu quando, andando da zio Pazzola, un fruttivendolo sennorese che aveva il negozio dopo la Laveria, percorrendo la piazza velocissimo mi attraversò la strada una muta di cani, saranno stati una quindicina; io ci finii in mezzo cadendo rovinosamente a terra, mi sfasciai un ginocchio e perciò, dolorante e pieno di sangue, me ne tornai a casa senza nemmeno arrivare al negozio.

Di fronte a zio Pazzola c'era la macelleria di Dedola nella quale si faceva anche il ghiaccio : era sempre una cosa curiosa vedere questi grandi pani di ghiaccio che si formavano in modo per me misterioso; nessuno sapeva mai spiegarmi come diavolo venissero fuori dall'acqua!
Si scendeva in piazza anche per andare a comprare il latte alla latteria di zia Dassu: anche lì bisognava fare la fila e spesso succedevano delle zuffe perché qualcuno non rispettava il suo turno. Una volta, mentre con Claudio ritornavamo a casa dopo aver comprato il latte, ci fermammo nel piazzale vicino a pozzo Podestà e ci mettemmo a giocare con i carrelli che venivano usati per trasportare il minerale dal pozzo alla Laveria; questi carrelli correvano su dei binari, noi cercavamo di spingerne uno ma siccome era pesante non ci riuscivamo; allora io feci forza sulle ruote e quando il carrello si mosse una delle ruote mi passò sopra le dita delle mani, schiacciandomele. La cosa strana fu che praticamente mi trasudò il sangue dalle dita senza che ci fossero delle ferite. Quando arrivammo a casa Mamma si spaventò e io per paura di essere picchiato, perché ci avevano sempre detto di non giocare con i carrelli, raccontai che mi ero sbattuto al carrello mentre correvo.

La piazza era il punto di aggregazione per tutta la miniera: c'erano gli uffici della direzione, l'ufficio postale, la caserma delle guardie di finanza, il dopolavoro operai e il circolo impiegati.

Era anche il punto di arrivo della corriera(mi piace chiamarla così, come la chiamavamo noi, e non pullman o autobus che sanno molto di città).

Per andare a Sassari esisteva solo una corsa: si partiva la mattina alle cinque e mezza, per arrivare dopo due ore e 42 chilometri di strada bianca tutta a fossi. Il viaggio sembrava molto simile a quelli delle diligenze dei film western perché oltre al fatto che la corriera si fermava in qualunque punto della strada dove ci fosse una persona che aspettava, quando si arrivava all'Emiciclo ognuno di noi era bianco dalla polvere, stanco e con la bocca secca per cui la prima cosa che faceva era entrare al bar per bere qualcosa.
Il viaggio di ritorno iniziava all'Emiciclo alle tre e mezza del pomeriggio e terminava in piazza alle cinque e mezza. L'arrivo della corriera era sempre un avvenimento e perciò a quell'ora c'era sempre un capannello di persone che si trovavano li, chi per aspettare un familiare, chi per curiosare e se del caso poi spettegolare e recare notizie fresche a casa sulle novità portate dalle persone che arrivavano dalla città. Proprio come nel vecchio west quando arrivava la diligenza. Infatti c'era anche una serie di invii da e per Sassari di buste, pacchi e pacchetti che venivano affidati all'autista o al fattorino per essere consegnati poi a qualche parente che aspettava o all'Emiciclo o in piazza.

Le valigie e i bagagli più grandi venivano messi sull'imperiale(il tetto del pullman) al quale si accedeva salendo su una scala a pioli attaccata alla parte posteriore della corriera. Ogni tanto qualche bagaglio volava per strada, quando non era stato fissato bene ed allora bisognava fermarsi per raccoglierlo. Proprio come nelle diligenze!
Non era possibile andare e tornare in giornata partendo da Sassari. Chi arrivava all'Argentiera in corriera doveva per forza pernottare lì.

Quando stavamo in "cantina", in piazza non andavamo spesso, se non per qualche motivo specifico, perché preferivamo giocare vicino a casa. Soltanto Babbo, terminato il lavoro, andava lì soprattutto per recarsi al circolo impiegati.

Già, perché per nostra fortuna(!) Babbo era un impiegato!

La suddivisione in classi sociali era molto marcata in miniera: C'era il Direttore, il vice direttore, gli impiegati, suddivisi in tecnici ed amministrativi ( i tecnici erano leggermente più importanti ) e gli operai. C'erano poi il Parroco, il comandante delle guardie di finanza, il medico, che pur non facendo parte della scala gerarchica della miniera erano ovviamente delle persone importanti e quindi assimilabili agli impiegati.

Che questa suddivisione esistesse era normale, come d'altra parte lo è oggi, perché in definitiva essa scaturisce dalle differenti mansioni che uno ha, ma a quei tempi e in un luogo chiuso come era la miniera, queste differenze significavano l'applicazione di una sorta di apartheid: il circolo impiegati, dove si andava per bere qualcosa nel bar interno, giocare al biliardo o a ping pong, giocare a carte, chiacchierare con i colleghi, guardare la televisione ( quando arrivò il tempo della televisione ), era riservato agli impiegati e ai loro familiari: gli operai non potevano entrarci e nemmeno i loro familiari, a meno che non fossero accompagnati da un impiegato, cosa che peraltro succedeva molto raramente. Una volta mi capitò di portare il figlio di un operaio per giocare al biliardo e il giorno dopo Babbo venne richiamato dal Direttore affinché una cosa del genere non si ripetesse!

Gli operai avevano il dopolavoro che essi utilizzavano per fare praticamente le stesse cose, solo che lì gli impiegati potevano entrare senza che nessuno avesse il diritto di protestare. Gli impiegati comunque raramente andavano lì perché l'ambiente non era certo dei migliori. Rimane il fatto che gli impiegati avevano il diritto di entrare al dopolavoro ma gli operai non avevano ugual diritto di entrare al circolo.

Anche in "cantina", quando si mettevano uno sopra all'altro i libretti per rispettare l'ordine di arrivo ( un po' come si fa alla USL di via Zanfarino con le ricette ), c'erano due file di libretti: quella degli impiegati e quella degli operai. Ma la cosa più incredibile ( oggi! ) é che anche in spiaggia esisteva tale distinzione. All'inizio del periodo estivo, infatti, la Società faceva piazzare sulla sabbia delle strutture in legno con la copertura di canne per creare una zona di ombra abbastanza ampia dal momento che allora non esistevano gli ombrelloni o comunque lì non c'erano. Naturalmente le strutture erano due: una per gli impiegati ed una per gli operai, e, altrettanto naturalmente, in quella degli impiegati non potevano stare gli operai mentre in quella degli operai potevano andarci benissimo anche gli impiegati!!
Succedeva perciò che se io dovevo giocare con il figlio di un operaio, che magari era un mio compagno di scuola, mi dovevo spostare nella struttura degli operai: il contrario non era consentito. Talvolta poteva anche succedere, ma per non creare problemi doveva essere un episodio casuale ed isolato.

Questa sorta di apartheid era peraltro "normale" in miniera e tutti la vivevano, a me pare di ricordare, con tranquillità come se fosse una cosa mandata da Dio e perciò accettata come qualcosa di ineluttabile. Probabilmente però gli operai e i loro familiari soffrivano di questa situazione, perché pochissimo tempo fa (siamo nel 2000) un mio compagno di scuola delle elementari, in una discussione con Nietta per un problema relativo alla festa di S. Barbara che si stava organizzando, ed evidentemente a seguito della insistenza di Nietta per far valere la sua tesi, ebbe a ricordare a Nietta, appunto, che erano finiti i tempi delle "baracche alla spiaggia..............." Come a dire che non esistevano più i privilegi di una volta e che ora siamo tutti uguali e perciò con uguali diritti. Evidentemente in questa persona, e chissà in quante altre, bruciava ancora il ricordo della umiliazione che aveva sentito da ragazzo per essere il figlio di un operaio.

Nel tempo comunque questa situazione si affievolì, pur con il mantenimento delle regole di cui ho parlato che durarono fino alla chiusura della miniera avvenuta nel 1963. Sempre più spesso succedeva infatti che qualche impiegato giovane si sposasse con la figlia di un operaio, o che ragazzi compagni di scuola continuassero a frequentarsi anche al di fuori della scuola stessa e che quindi i rapporti tra le persone si basassero più sulle caratteristiche personali che sul loro "status" di impiegati o operai. Naturalmente tutto ciò era anche frutto dei tempi che cambiavano, della maggiore circolazione dei giornali, dell'avvento della televisione e della maggior cultura anche delle famiglie di operai in molte delle quali i figli andavano a studiare, soprattutto nei seminari, spinti dai preti che speravano di far aumentare le vocazioni. Una delle cose che ricordo, a riprova di questa diminuzione, nel tempo, degli effetti causati dalle differenze sociali, é che negli ultimi anni di vita della miniera mi capitava spesso di giocare a biliardo, al circolo, con il direttore della miniera , allora l'ing. Meloni, grandissima persona, il quale, quando perdeva, mi chiedeva, scherzando, se a Cagliari io andassi per studiare o per imparare a giocare a biliardo. Solo una decina di anni prima una cosa del genere sarebbe stata impensabile.

Un altro motivo che servì in parte a mitigare gli effetti delle divisioni di classe fu la costituzione della squadra di calcio che, sicuramente voluta dalla Società perché ci fosse qualcosa di aggregante per la popolazione e soprattutto qualcosa che potesse distogliere la gente, almeno per un po', dai problemi sociali di quegli anni attraverso l'effetto "Bartali" (nel 1948 la sua vittoria al Tour de France aveva evitato la guerra civile in Italia dopo l'attentato a Togliatti). Era pian piano diventata una bella realtà perché la squadra era fortissima, almeno in campo provinciale, scontrandosi e spesso vincendo con la stessa Torres che mirava a raggiungere dei risultati consoni alla importanza di capoluogo di provincia. Il motivo per cui la squadra fosse così forte era da ricercare nel fatto che la Società, quando chiamava i giocatori più forti di allora, dava loro anche il lavoro e quindi essi, oltre che giocare al calcio avevano anche l'esistenza assicurata da un lavoro che ritengo fosse abbastanza ben retribuito per quei tempi: alcuni di questi erano proprio giocatori della Torres che naturalmente non potevano rifiutare una proposta così allettante. Molti di essi rimasero poi all'Argentiera a lavorare anche dopo che la squadra fu sciolta. I loro nomi sono ancora molto noti tra le persone di miniera e tra i vecchi tifosi della Torres. Devo dire che talvolta la squadra viene citata da "la Nuova" quando racconta di eventi sportivi di quegli anni e nomina qualcuno dei giocatori famosi che avevano giocato nella squadra dell'Argentiera. Sig. Gabbi e Franceschino Senes, portieri, sig. Ulivieri, terzino maledetto, sig.Pischedda, un undici alla Gigi Riva, Bardanzellu, di Calangianus, un centravanti alla Boninsegna, Mario Alias, mi pare centromediano, Placchi anch'Egli credo un centrocampista( mi piacerebbe sapere se la sig.na Placchi attuale giocatrice della Torres femminile Campione d'Italia e della Nazionale sia per caso nipote del Placchi dell'Argentiera), Dongu, zio Piero Scudino, e poi tanti altri di cui non ricordo più i nomi, erano i giocatori più noti, ma naturalmente c'erano anche molti nomi dell'Argentiera, ossia di tanti che vivevano già da prima in miniera e che si erano improvvisati giocatori ma con risultati ottimi. Babbo era il segretario della squadra, mentre il presidente era il direttore della miniera, l'ing. Zera. Claudio era la mascotte.

L'altro sport che per qualche anno venne praticato fu il pugilato. Chi lo introdusse fu un pugile professionista di Portotorres, Mario Solinas, che era stato campione Italiano, forse dei pesi medi. Venne a combattere anche Salvatore Burruni, credo da dilettante, che doveva diventare poi campione del mondo dei pesi mosca. La palestra era in piazza, una costruzione di legno, che fu realizzata a fianco della chiesa provvisoria, pure in legno. I miei ricordi però non sono vividi per cui é possibile che la palestra prese il posto della chiesa quando fu realizzata quella definitiva, che é poi quella attuale, vicino alla villa amministratori. Quando si organizzavano le riunioni anche il ring veniva allestito in piazza.

Quegli anni della scuola elementare furono per me anni tutto sommato tranquilli anche se ricordo qualche episodio spiacevole come l'infortunio a Francesco Sara, che, mentre lavorava come elettricista, rimase fulminato dalla corrente elettrica all'interno della cabina di trasformazione che alimentava la Laveria. Questo ricordo é sempre rimasto in me molto vivo perché questa persona, molto amica della nostra famiglia, era molto simpatica, benvoluta da tutti e perché solo qualche giorno prima, in una scampagnata durata tutto il giorno alla "Banderetta", ci aveva fatto divertire tanto con le sue battute.

Anche la malattia di Babbo si manifestò in tale periodo e nell'occasione le famiglie che abitavano vicino a noi ci aiutarono a superare quel momento difficile che poi si risolse, per fortuna, in maniera positiva.

Dal punto di vista strettamente scolastico, gli episodi importanti furono due: in terza ed in quinta Elementare.

Il mio maestro di terza era un uomo abbastanza robusto, bravo di carattere ma probabilmente non altrettanto come insegnante. Allora in terza si doveva sostenere l'esame di fine anno per essere promossi alla quarta. Io ero molto indietro un po' in tutte le materie ma soprattutto in matematica. Mamma cercava di farmi fare degli esercizi ma assolutamente non riuscivo a fare progressi, tanto che signorina Iole, una delle tre maestre che abitavano nella casa a fianco, amica e futura comare di Mamma in quanto dopo qualche anno avrebbe battezzato Piero, sentenziò che non ero abbastanza intelligente, non come Nietta, comunque, e perciò le disse di mettersi l'animo in pace. Per fortuna(!) in un periodo successivo il maestro si ammalò e fu sostituito dalla moglie, che non era proprio maestra in quanto non aveva conseguito il diploma, ma che aveva frequentato quasi tutti gli anni della magistrali. Non so perché non mandarono un vero sostituto, forse non ne trovarono uno disponibile a venire all'Argentiera per poco tempo o forse non avvisarono nemmeno il provveditorato perché il periodo sarebbe stato breve. Il risultato fu, comunque, che mamma notò un miglioramento notevole in me durante la sostituzione e quindi ne dedusse che il problema non stava in me ma nell'insegnante. Decise allora di non presentarmi all'esame e di farmi ripetere l'anno, per avere due risultati: farmi fare la terza in grazia di Dio e lasciare quel maestro che altrimenti avrei avuto anche in quarta e in quinta. Il maestro capì il motivo per cui non mi presentai all'esame, si offese molto e non rivolse più la parola a Mamma. L'anno dopo frequentai la terza a Portotorres con il maestro Castellaccio e a scuola non ebbi più problemi nemmeno in quarta e quinta, nelle quali, una volta rientrato all'Argentiera, ebbi il maestro Zanini, anche lui molto bravo. D'altra parte anche come età ero a posto avendo iniziato a cinque anni.

La quinta fu importante perché mi doveva dare la preparazione per poter frequentare la scuola media.

In quei tempi alla fine delle elementari, in quinta, appunto, bisognava sostenere un esame finale, ma successivamente era necessario sostenere un altro esame per poter essere ammessi a frequentare la scuola media, il famoso e temuto "esame di ammissione". La mia preparazione fu curata da signorina Lina, sorella di signorina Iole, che probabilmente aveva più pazienza o forse era più brava in quel compito, e comunque non aveva dato giudizi, poi rivelatisi affrettati, su di me!!! Superai brillantemente l'esame di ammissione e i tre anni successivi di scuola media li feci a Portotorres; abitavo a casa di signora Paolina che Mamma aveva conosciuto, in quanto abitava di fronte a noi, nell'anno in cui io avevo frequentato la "seconda" terza elementare e Nietta la prima media. Signora Paolina era una donna di grandissime qualità: non aveva studiato, credo che a mala pena sapesse leggere e scrivere, ma aveva una grande bontà ed una saggezza che non ho mai più ritrovato in nessun'altra persona. Aveva la dote rarissima di non provare rancore per alcuno, era sempre pronta ad aiutare chi aveva bisogno, a comprendere e perdonare anche le persone che talvolta le facevano del male o non le davano una mano quando era lei ad avere bisogno .

Mamma fu aiutata molto da Signora Paolina: era in cinta di Piero e credo che avesse avuto una gravidanza un po' difficile; inoltre ebbe difficoltà ad inserirsi e vivere in un paese un po' scorbutico come Portotorres con persone piene d'invidia e di pregiudizi, anche perché stava tutta la settimana da sola; Babbo veniva soltanto al sabato e ripartiva poi la domenica sera. L'amicizia che si creò fu davvero forte e tale rimase per sempre. Ancora oggi con i figli di signora Paolina abbiamo un rapporto fraterno in quanto a casa sua, nel periodo delle scuole medie, ero considerato da tutti un altro figlio.

Furono anni bellissimi anche perché diventando più grandi cominciavamo ad apprezzare le persone che ci circondavano.
Uno di questi era Nonno Ruggiu. Era il capo dell'officina falegnami, quindi falegname egli stesso, di grande cultura che poteva sostenere qualunque discussione su qualunque argomento. Era molto apprezzato da tutti, gli piacevano molto le opere liriche, le poesie sarde che comprendeva benissimo e per le quali sbavava, tanto che Zietta e Zia Antonietta quando nelle feste andava a sentire i poeti sardi, gli dicevano di portarsi il lavamani appunto per raccogliere la bava.
Noi pendevamo dalle sue labbra perché ci raccontava un mucchio di storie per le quali attingeva sia dalle fiabe che conosceva sia dalla sua vita che era stata piena di avventure. Erano fantastici i racconti di quando era finanziere al confine con la Svizzera, credo durante la prima guerra mondiale, dal momento che era nato nel 1890, con storie di contrabbandieri, di briccolle, di paura nelle notti fredde d'inverno, di guardia ai passi alpini, di spari nella notte, di un asino ucciso a fucilate perché il rumore della sua andatura sembrava uguale ai passi di un contrabbandiere che non si era fermato all'altolà.
Quando ci raccontava le sue storie noi non ci stancavamo mai di ascoltarlo e quando era lui a stancarsi allora introduceva nel racconto il passaggio di un gregge di pecore che però non finiva mai e perciò ci diceva che il racconto sarebbe continuato in un altro giorno una volta passate tutte le pecore.
Era amante dei gialli e dei processi per omicidio che avevano scosso l'opinione pubblica e che venivano raccontati sui giornali, così come delle arringhe degli avvocati che di volta in volta criticava a seconda del suo schieramento tra gli innocentisti o tra i colpevolisti.
Aveva naturalmente anche dei difetti che erano principalmente quello del bere e quello di sperperare i soldi. Noi ovviamente non ci rendevamo conto di questi difetti prima perché eravamo piccoli e poi, quando, diventati più grandi, Lui aveva diminuito la sua aggressività, non beveva più tanto (noi non l'abbiamo mai visto ubriaco) e non aveva più soldi da sperperare dopo che lo aveva fatto con tutte le proprietà di Nonna Ruggiu.
Dei suoi amici dell'Argentiera citava spesso il sig. Serpillo che doveva essere un uomo in gamba, visto che era amico suo. Questi é risultato essere poi il nonno del mio insegnante d'inglese all'università, il quale da piccolo veniva all'Argentiera appunto a trovare suo nonno.
Riguardo il suo lavoro andava fiero del periodo in cui aveva lavorato per il più famoso costruttore di mobili di Sassari che era Clemente, perché lavorare da Clemente significava essere dei bravissimi falegnami; tra i tanti racconti di quel periodo mi ricordo quello relativo alla costruzione di una culla che la città di Sassari aveva donato credo al Re D'Italia per la nascita del figlio: era un capolavoro!
Andava anche fiero di una invenzione che aveva fatto in miniera quando era riuscito a realizzare una applicazione per la pialla che consentisse di costruire dei settori circolari di legno che dovevano avere delle scanalature lungo le quali, una volta ricoperti di una tela robusta doveva passare aria compressa . Ciò avvenne credo durante la guerra in quanto non fu possibile approvvigionarsi di tali settori dalle ditte continentali che prima le fornivano.
Credo che in quella occasione la Società gli avesse dato un premio speciale per la bravura dimostrata .

Nel periodo delle scuole medie ci trasferimmo nella "casa di giù", ossia in un'abitazione più grande, prima occupata dalla famiglia di un impiegato che era stato licenziato. Il Direttore ci aveva dato questa casa in quanto nel frattempo i figli eravamo diventati cinque e la casa di "cantina" era diventata troppo piccola. Eravamo praticamente in piazza e questo significava anche una maggiore considerazione da parte degli altri. Inoltre avevamo un po' tutto a portata di mano, ad eccezione della cantina che risultava ora un po' lontana.

Noi stavamo diventando grandi e tante cose incominciavano a cambiare. Quasi tutti gli amici eravamo fuori a studiare e quindi ci vedevamo di meno; con alcuni ciò accadeva praticamente solo in estate. Io studiavo a Portotorres e rientravo il fine settimana utilizzando un pullman che partiva da Sorso, passava a Portotorres e proseguiva per Alghero percorrendo la strada dei due mari. All'incrocio di Juanne Abbas c'era la coincidenza con il pullman per l'Argentiera, proveniente da Sassari. Il lunedì mattina invece non c'era tale possibilità ed allora il più delle volte Babbo mi procurava un passaggio sui camion della società che trasportavano il minerale al porto di Portotorres per l'imbarco sulle navi che dovevano poi trasferirlo alle fonderie del continente.

Già perché in quegli anni la tecnologia avanzava e quindi cambiavano sia i metodi di estrazione del minerale, sia quelli relativi al suo trasporto una volta pronto.

I minerali presenti nel sottosuolo dell'Argentiera erano piombo, zinco e galena argentifera.
Esistevano due pozzi principali: Pozzo Podestà e pozzo Alda. Il primo era vicino alla cantina, mentre il secondo era a La Plata.
Il Pozzo era proprio un pozzo che scendeva fino a profondità di centinaia di metri dal quale si dipartivano, a vari livelli, diverse gallerie nelle quali si effettuava l'estrazione del minerale. Anche molte di queste gallerie erano collegate tra di loro, pur se a differenti livelli, attraverso altri pozzi di diametro molto più piccolo di quello principale che si chiamavano infatti fornelli. Scorrevano lungo il pozzo principale due montacarichi( penso fossero due anche se io ne vedevo uno solo, in modo che uno facesse da contrappeso all'altro) che servivano sia per il trasporto del personale, sia per il trasporto dei vagoncini che gli operai riempivano di minerale nelle gallerie. La miniera rimaneva in attività 24 ore su 24 ad eccezione della domenica che era il giorno di riposo per tutti. C'erano perciò tre turni di otto ore ciascuno che iniziavano rispettivamente alle 00, alle 8 e alle 16 di ogni giorno; il cambio del turno si chiamava "sciolta".
Una volta in superficie, i vagoncini pieni di minerale ancora in forma di pietre venivano spinti o tirati dai muli, fino alla Laveria.
La Laveria era per me una cosa misteriosa e per questo affascinante: era una specie di laboratorio che trasformava ciò che era stato estratto dal sottosuolo.
Quando arrivavano alla Laveria, i vagoncini venivano ribaltati e tutto il minerale scendeva in alcune tramogge a forma di tronco di piramide, con la punta in giù, collegate ad un primo frantoio dove veniva iniziata la fase di frantumazione delle pietre. Questo primo frantoio credo fosse a ganasce. mentre il secondo era a sfere. Non ricordo se ci fosse un terzo frantoio, ma il risultato finale della frantumazione era una polvere finissima, composta dai tre minerali e da materiale sterile, che attraverso dei nastri trasportatori, veniva scaricata nelle vasche di flottazione, ossia in vasche piene di acqua e altre sostanze. Veniva prodotta una schiuma che rimaneva in superficie e veniva raschiata da palette rotanti che la spingevano su altri nastri trasportatori. nel percorso su tali nastri la schiuma si asciugava e rimaneva il minerale. Da grande capii che in qualche modo veniva sfruttato il diverso peso specifico dei tre tipi di minerale perché essi potessero essere separati. Esistevano infatti tre serie di vasche, una per ogni tipo di minerale e tre nastri trasportatori diversi che convergevano tutti nella parte bassa della Laveria dove venivano utilizzati quei settori circolari che costruiva Nonno. Il minerale ormai lavorato veniva raccolto con dei vagoncini e immagazzinato all'interno di appositi spazi in attesa di essere poi trasportato in continente, mentre lo sterile veniva trascinato in mare con l'acqua di lavaggio del minerale stesso.

Mi pare che l'aspetto più evidente dell'avanzata della tecnologia fosse proprio il diverso metodo di trasporto del minerale in continente. Fino al termine della guerra e ancora qualche anno dopo esso veniva trasportato con i vagoncini fino al ponte costruito alla spiaggia e sistemato su barconi che lo portavano fino a dei bastimenti che si fermavano un po' al largo, nella baia. Non entravano mai all'interno della baia perché se il mare si fosse improvvisamente agitato sarebbero stati sbattuti sugli scogli come dei fuscelli, cosa che alcune volte era successa. La cosa stupefacente, almeno per me, era però un grandissimo carrello che veniva fatto scorrere su rotaie e posizionato sul ponte. Era su questo che scorrevano i vagoncini pieni di minerale che ad un certo punto venivano ribaltati ed il minerale finiva nei barconi. Era formato da due piani e quello superiore era allo stesso livello di due archi di circonferenza del ponte contrapposti nella parte concava su ognuno dei quali c'erano le rotaie più piccole sulle quali scorrevano i vagoncini; quello di destra(guardando il mare) era per il percorso di andata dei vagoni pieni e quello di sinistra per il ritorno dei vagoni vuoti. Lo scaricamento del minerale nei barconi avveniva attraverso delle tramogge ruotanti anch'esse montate sul carrello.

Dopo questo periodo incominciarono a vedersi dei camion e quindi il minerale veniva prima caricato sui camion che lo trasportavano fino al porto di Portotorres, scaricato sulla banchina e poi da lì preso e stivato con le gru nelle navi.
Questo nuovo metodo era più semplice ed economico ma sicuramente meno curioso e, se vogliamo, meno romantico.

La "casa di giù" era proprio di fronte alla Laveria. Credo che dalle finestre di casa e le pareti della Laveria non ci fossero più di venti metri. E' inimmaginabile il rumore che c'era con i frantoi e con tutti i motori che funzionavano giorno e notte. Noi però quasi non ci rendevamo conto di questo, anzi paradossalmente avevamo un senso di fastidio alla domenica quando gli impianti erano fermi. Senza il rumore ci sembrava di essere in una situazione irreale!!

Anche da un punto di vista pratico questa casa era migliore dell'altra perché risultava al centro della miniera; la vita sociale si svolgeva in piazza, sia nelle sere dei giorni feriali, sia alla domenica quando dopo la Messa, la mattina, tutti passeggiavano con i vestiti del giorno di festa. Il circolo era lì a portata di mano e perciò noi stavamo quasi sempre lì. C'era il bigliardo, il ping pong, una sala con dei tavolini dove si giocava a carte e dove più tardi fu installato il televisore, e naturalmente il bar . L'atmosfera era sempre molto bella, c'era sempre tanta allegria: i Grandi commentavano i fatti del giorno sia locali che nazionali o regionali, ma spesso anche i risultati di memorabili partite a bigliardo (all'italiana o a boccette) o a carte (di solito scopone scientifico). La posta in palio per queste partite era di solito un caffè o una bibita o più spesso un cioccolatino che il vincitore portava alla moglie o ai figli. Una volta Babbo, dopo aver vinto una partita a boccette, diede il cioccolatino che aveva vinto a sig. Col perché lo portasse a Fufolina. Un nostro amico maestro elementare di Portotorres (nipote di signora Paolina) che insegnava all'Argentiera, presente alla partita, si meravigliò che Babbo donasse il cioccolatino ad un cane! Solo più tardi venne a sapere che Fufolina era la figlia di sig. Col!!

In estate il tavolo da ping pong veniva portato all'esterno in un giardinetto prospiciente il circolo e lì le partite erano memorabili. Qualche volta si tentava di organizzare qualche ballo ma la cosa suscitava sempre qualche perplessità da parte dei Grandi.

Memorabili erano anche le feste di capodanno che venivano organizzate al circolo; naturalmente la prima nostra partecipazione a tale festa significava il nostro ingresso in società e quindi il riconoscimento ufficiale del fatto che non eravamo più bambini.

Ricordo quando portarono il primo televisore quanta emozione suscitò in tutti! per le trasmissioni più importanti ci riunivamo nella sala e i commenti erano veramente i più coloriti che si potessero sentire. Diciamo che spesso dire che vedevamo la televisione era un eufemismo perché in realtà si vedeva pochissimo in quanto non c'erano ripetitori vicini alla miniera e perciò spesso vedevamo delle ombre, ma già quella era una conquista. Paradossalmente si vedeva meglio quando c'era brutto tempo: probabilmente perché in quelle condizioni l'aria era meno ionizzata e il segnale, seppure debole, poteva arrivare senza distorsioni.

Ci avvicinavamo agli anni sessanta, la musica che irrompeva era il rock di Elvis Presley o di Little Richard, ma anche quello di Pat Boone che con il suo "Love Letters in the Sand" ci faceva morire di malinconia. Poi ancora Paul Anka con "Diana" e Neil Sedaka con "Oh Carol". Io studiavo a Cagliari, all'Industriale, e rientravo a casa solo a Natale, a Pasqua, e ovviamente in estate, alla fine delle scuole.

L'estate rappresentava il periodo più bello in assoluto. Naturalmente la vita era spensierata dato che, da ragazzi, le preoccupazioni erano tutte dei nostri genitori. Farci studiare significava per Babbo e Mamma grandi sacrifici economici, perché io stavo a Cagliari a pensione (per un anno anche Claudio che poi si ammalò alle gambe e perciò rimase a casa), e Nietta era a La Maddalena in collegio. Lo stipendio era solo quello di Babbo, ma con la testardaggine di Mamma e facendo veramente i salti mortali, erano riusciti a fare in modo che potessimo studiare. Noi sapevamo questo ma Loro non lo facevano pesare mai per cui la vita a casa era sempre molto serena.

La mattina eravamo sempre al mare con la spiaggia a nostra disposizione. Allora non veniva nessuno da fuori perché coloro che possedevano l'automobile erano pochissimi e per gli altri era più pratico andare ad Alghero o a Platamona. ovviamente non ci sembrava vero avere il mare tutto per noi ed inoltre vedevamo quelli di fuori come degli intrusi che volessero portarci via qualcosa di nostra proprietà. Ancora oggi d'altra parte quando vado all'Argentiera e vedo tanta gente "di fuori" che sembra padrona del posto mi infastidisco un po', soprattutto quando li sento parlare dei posti tipici come se fosse qualcosa che appartiene a loro, mentre ciò assolutamente non è vero. Talvolta mi è capitato di incontrare qualche conoscente che vedendomi all'Argentiera mi ha chiesto: "Anche tu qui?"!!!!!!!

La compagnia era molto bella ed eravamo quasi sempre gli stessi; da un anno all'altro potevano cambiare degli amici che venivano a trovare qualcuno di noi oppure i figli del direttore della miniera la quale era la figura che, rispetto agli altri, cambiava più spesso. Così per tanti anni ci furono Gianni e Claudia Boschetti e poi venne Barbara Balbusso.

C'erano poi gli Ottelli che venivano solo d'estate perché abitavano ad Iglesias anche se il loro padre lavorava in miniera come caposervizio "esterno" e probabilmente in inverno rimaneva da solo o forse con la moglie e la figlia Annamaria. Erano quelli che portavano sempre le novità e ci sembravano strani perché diversi da noi come mentalità ma soprattutto come parlata che era logicamente campidanese e che ci faceva ridere con il "là, tocca!"

Li chiamavamo "gli Ottelli" perchè erano tanti fratelli, anche se poi quelli che stavano con noi erano tre: Cicci, Luciano e Sergio. Della cordata campidanese faceva parte anche un altro Luciano, il nipote di sig. Villaminar, che era della mia stessa età e che era molto mio amico.

L'anno della influenza denominata "asiatica" Luciano(Villaminar) si ammalò nel mese di settembre e mamma mi mandò da lui per fargli compagnia e per far sì che io venissi contagiato e potessi avere l'influenza stando a casa. Le scuole iniziavano il primo di ottobre e forse c'era tutto il tempo; invece io non mi ammalai finché fui a casa ma appena arrivai a Cagliari.

La compagnia che si riuniva al completo in estate era composta dagli indigeni e dagli "ospiti" ma naturalizzati dell'Argentiera come gli Ottelli o i figli del direttore.

Gli indigeni più o meno della mia età eravamo diversi: oltre me c'erano Antonello e Giambruno Peru, Ninni Col, Claudio (nostro), Gianfranco e Tonio Madarese, Franco Zanin, Franco Tosi, Tonio Zuddas, Tonio Mura, Andrea Porcu, Ninuccio Ceraulo, Salvatore Muroni, Bruno Uldank, Francesco Mura.

Le ragazze indigene erano: Nietta, Renata e Riccarda Seno, Rosetta Scanu, Maria Carmela Mannu, Fufolina e Marta Col, Gisella Serra, Giulia Ceraulo di giù, Giulia e Rosalba Ceraulo di su, Mariuccia Mura, Anna Zuddas.

Sia tra i maschi che tra le femmine alcuni erano un po' più grandi oppure lavoravano già e quindi stavano di meno con noi nei giorni feriali mentre di domenica ci ritrovavamo tutti, inizialmente in chiesa per la Messa e poi al mare.

La Messa era sempre un momento importante: ognuno faceva sfoggio dell'abbigliamento più elegante, bisognava essere lì in orario altrimenti il prete si adirava. Mi ricordo che le donne non potevano entrare in chiesa a capo scoperto e naturalmente dovevano vestire in modo non scandaloso oltre che avere un portamento semplice e modesto. Tutti guardavano tutti e quindi bisognava evitare ci fossero motivi di pettegolezzo.

Alla fine della messa, in inverno andavamo in piazza e al circolo, mentre in estate andavamo in spiaggia.

Moltissimi ricordi di avvenimenti più o meno importanti sono legati alla chiesa che, essendo l'unico punto comune a tutti e nel quale eravamo tutti uguali ( per fortuna non c'erano i banchi per gli impiegati distinti da quelli per gli operai!), diventava spesso riferimento temporale e spaziale.

La chiesa, all'Argentiera, non è stata sempre quella attuale. La prima di cui abbia sentito parlare era nella parte alta di Calaonano, la seconda era invece in piazza ma era una costruzione in legno, provvisoria, in attesa che venisse costruita quella definitiva ed attuale sulla collina dalla quale si vede tutta la baia.

Non so bene perché decisero di abbandonare la chiesa di Calaonano: ritengo che la ragione potesse risiedere nel fatto che era troppo lontana dal centro e quindi era faticoso raggiungerla.

Certo parlare della chiesa significa inevitabilmente parlare di Don Meloni che, casualmente, era stato sia in quella di Calaonano sia in quella attuale.

Don Meloni, Pietro Meloni, era un personaggio straordinario soprattutto per il fatto che era il classico scienziato pazzo. Già negli anni quaranta, quando appunto era nella chiesa di Calaonano, faceva parlare di sé per le sue stravaganze: girava sempre in moto, velocissimo, in pantaloni e con gli occhialoni da motociclista come si conveniva allora. Aveva, all'esterno della chiesa, un orticello recintato nel quale coltivava degli ortaggi che piacevano molto anche ad alcune capre che pascolavano da quelle parti e che in qualche modo riuscivano a saltare la recinzione e a mangiarsi la verdura. Don Meloni avvisò il proprietario delle capre affinché stesse attento e tenesse le bestie lontano dall'orto. Ciò non avvenne ed allora don Meloni minacciò di sparare alla capra che avesse trovato all'interno dell'orto. Cosa che fece puntualmente un giorno in cui per l'ennesima volta trovò appunto una capra che gli stava mangiando gli ortaggi.

Già questo esempio serve a capire come Egli non fosse il classico uomo di chiesa! Si diceva, d'altra parte, che i genitori lo avessero costretto a farsi prete perché lui non voleva. A quei tempi per le famiglie era un orgoglio avere un figlio prete e spesso accadeva appunto che i figli venissero costretti a seguire la carriera ecclesiastica anche senza la vocazione.

Era un uomo di scienza, soprattutto astronomo, ma che amava la musica, suonava abbastanza bene il violoncello, e non disdegnava interessarsi di elettronica come nella costruzione di un televisore probabilmente attraverso corsi tipo Radio Elettra.

Per quanto riguarda l'Astronomia, si era costruito un osservatorio tutto da sé che aveva prima a Sassari e che poi trasferì all'Argentiera quando venne per la seconda volta; c'era stato un intervallo di tempo nel quale il vescovo lo tenne a Sassari, mentre da noi arrivò Padre Benvenuto, un frate di Santa Maria, classico uomo di chiesa, un po' ipocrita, un po' falso e viscido abbastanza da essere poco simpatico ai più.

Don Meloni invece era un uomo pratico che difficilmente sottostava a dei compromessi e che ci metteva poco a mandare a quel paese chiunque, Vescovo compreso, il quale infatti, non appena poté, lo rimandò all'Argentiera, lontano da Sassari. Don Meloni accettò, credo di buon grado, perché così non sarebbe stato costretto ad effettuare tutte le cerimonie in pompa magna come avviene in città, come quelle di Pasqua o Corpus Domini o L'Ascensione, con tutte le processioni e i fastidi che ne derivano. Non so quanto Don Meloni fosse credente, anche se era prete, ma certamente riteneva che Dio non fosse tutto l'insieme di vizi e virtù che gli uomini, a loro somiglianza, Gli attribuivano. Sicuramente lo considerava un Essere pratico come era lui. Una volta nella predica che fece durante la Messa per la Festa di Santa Barbara, patrona dei minatori, disse che Santa Barbara aveva disubbidito al padre e che quindi il padre aveva fatto bene a tagliarle la testa! Probabilmente fu nella stessa occasione in cui sgridò gli operai che erano tutti in chiesa per venerare la Santa Patrona, dicendo loro che bisognava andare in chiesa tutte le domeniche e non soltanto in quella circostanza e aggiungendo che in definitiva Santa Barbara era la serva di Dio e quindi era come se gli operai, andando a casa del Direttore, ossequiassero la donna di servizio senza degnare di uno sguardo il Direttore stesso che invece era la persona più importante!

Un'altra volta, in occasione della benedizione delle case, dopo Pasqua, venne a casa di nonna Ruggiu per benedire appunto la casa. Entrò e si fermò nell'ingresso, lanciando l'acqua benedetta da quel punto. Alla richiesta di Nonna di entrare anche nelle altre stanze, Lui rispose di non preoccuparsi perché l'Acqua Santa era come le cimici: bastava darla in una stanza e si sarebbe sparsa per tutta la casa!

Tante volte nelle afose nottate estive andavamo a trovarlo e Lui era sempre molto contento: ci offriva da bere e poi ci faceva vedere le stelle con il telescopio oppure si metteva a suonare il violoncello.

Il disordine che regnava nella sagrestia era qualcosa di indescrivibile, cicche dappertutto, una tazzina per il caffè che non lavava mai, tanto lì " beveva solo lui ", ma che ormai conteneva pochissimo caffè dato che il fondo era sempre meno profondo, un televisore in costruzione, il violoncello, la carabina ad aria compressa: si faceva fatica a trovare un posto dove sedersi!

Era però una persona straordinaria: chiacchierare con lui era sempre piacevolissimo e si imparava sempre qualcosa dalle visite che gli facevamo.

Noi eravamo molto legati a Don Meloni: aveva celebrato il matrimonio di Babbo e Mamma nel 1939 usando non so bene quale artifizio in quanto Mamma era minorenne e nonno Ruggiu non voleva che si sposasse, per cui c'era tra di loro tanta confidenza sicuramente originata dalla complicità che quell'avvenimento aveva comportato.

Credo di non esagerare nell'affermare che Don Meloni era un grandissimo uomo.

All'uscita dalla Messa, in estate, passavamo un attimo a casa a cambiarci e poi subito in spiaggia.

Le spiagge erano due, ma l'unica praticabile e nella quale stavamo era quella alla destra del ponte, guardando il mare, perché l'altra era ricoperta da un fango grigio, portato dalle acque di scarico della Laveria e naturalmente non era possibile nemmeno camminarci. Per dire la verità talvolta qualcuno di noi andava proprio alla spiaggia del minerale per il gusto di coprirsi completamente di fango e poi ripulirsi in acqua nell'altra spiaggia.

La domenica ovviamente c'erano anche le famiglie che non potevano venire nei giorni feriali e una delle cose più buffe da vedere erano le persone che si facevano il bagno pur non sapendo nuotare e che cercavano di imparare; erano soprattutto le mogli degli impiegati continentali che si munivano di ciambelle salvagente come se fossero dei bambini e perciò se ne vedevano di tutti i colori, perché da un punto di vista estetico non offrivano uno spettacolo propriamente esaltante con i loro sederi all'aria per cercare di stare a galla, tra risate, grida di paura o di richiamo verso i loro mariti quando riuscivano a fare qualche bracciata. Così ogni domenica c'erano i vari show della signora Sella, della signora Zannoni, della signora Nascimbene e di tante altre che vedevano il mare come una cosa curiosa, lontana dalla loro cultura, dal momento che venivano dal nord Italia e quindi più abituate alla montagna, e che sicuramente avevano visto il mare per la prima volta quando erano arrivate all'Argentiera.

L'acqua era molto alta: già a qualche metro dalla riva non si toccava più e ad una distanza di qualche decina di metri la profondità era già rilevante. All'uscita della baia l'acqua era profonda un'ottantina di metri. Non ricordo però di persone annegate, all'Argentiera, probabilmente perché, ho sempre pensato, l'acqua subito alta incuteva paura e quindi tutti erano particolarmente prudenti, soprattutto le mamme che controllavano a vista i propri figli mentre facevano il bagno e non si fidavano nemmeno per un momento.

Il divertimento in spiaggia era sempre grandissimo sia quando facevamo il bagno sia quando stazionavamo sulla spiaggia tutti assieme raccontando un mucchio di storie. Tonio Mura portava sempre qualche camera d'aria di copertone di camion, naturalmente gonfia, ci si metteva dentro e si faceva rotolare fino all'acqua. Ogni tanto si trovava qualche tronco di legno e allora si faceva a gara a chi rimaneva più tempo sopra. C'erano poi i tuffi dal ponte dove spesso andavamo tutti e perciò era un continuo tuffarsi e risalire e poi rituffarsi senza sosta in un turbinio di acqua; talvolta qualcuno si tuffava in testa ad un altro che ancora non si era spostato ma per fortuna non succedeva mai niente di grave.

Un anno c'era stata l'invasione delle meduse: era la prima volta che ciò accadeva, almeno per me. La superficie del mare era letteralmente ricoperta di meduse! Dalla riva se ne prendevano a decine e si infilavano in un pezzo di filo di ferro per formare delle collane. Erano urticanti in maniera incredibile e praticamente tutti noi eravamo rimasti bruciati, chi più chi meno. Quello che aveva avuto problemi grossi era stato Giampaolo Gaia perché mentre faceva il bagno una medusa gli si era attaccata al collo sotto la nuca e gli aveva provocato una bruciatura molto estesa e molto dolorosa: credo che lo abbiano portato all'ospedale per questo.

L'altro divertimento era fare il bagno con il mare agitato, cosa che avveniva qualunque grado avesse la burrasca o qualunque altezza raggiungessero le onde. Bisognava calcolare il momento in cui entrare in acqua, tra l'infrangersi di un'onda e l'arrivo della successiva, per poi nuotare verso il largo e seguire il movimento delle onde cosicché ti ritrovavi in alto sulla cresta di un'onda e poi giù di colpo nel vuoto tra un'onda e l'altra. Il momento più difficile era però uscire dall'acqua perché bisognava farsi trasportare dall'onda verso la riva, aspettare che l'onda si infrangesse e poi uscire prima dell'arrivo dell'altra. Una volta calcolai male il tempo e mi ritrovai nel mezzo dell'onda quando questa si arrotolava su se stessa. Anch'io girai assieme all'onda, venni sbattuto violentemente sul fondo e trascinato via senza che potessi fare alcunché per fermarmi, come fossi un fuscello di paglia. Non mi feci alcuna ferita per fortuna ma lo spavento fu veramente grande e da allora imparai a fare meglio i conti.

In generale la vita scorreva abbastanza serena seppure forse un po' monotona; qualche avvenimento importante però si verificò nel corso degli anni, al di là degli infortuni mortali o comunque molto gravi che rappresentavano sempre qualcosa d'importante.

Il primo di cui ricordo qualcosa, seppure in maniera vaga, fu un attentato fatto a Padre Benvenuto, il parroco di allora, con una bomba posta all'esterno della sagrestia da un comunista. Erano gli anni cinquanta, credo, e le battaglie politiche tra i comunisti e i democristiani erano ancora all'ordine del giorno. I comunisti, d'altra parte, erano stati scomunicati in quanto atei e, se non ricordo male, la bomba era stata messa da un comunista al quale era stato negato il matrimonio in chiesa; avere l'esplosivo, in miniera non era certo difficile, anche se i controlli severissimi da parte dei Carabinieri o della Guardia di Finanza limitavano un po' i furti; questo materiale esplosivo peraltro veniva usato anche per pescare. C'erano infatti coloro che dalla miniera riuscivano a trafugarne un po' e, per poter avere una discreta quantità di pesci, in maniera veloce e con poca fatica, gettavano in mare una bomba da essi preparata che, esplodendo, provocava un violento spostamento d'aria e quindi l'uccisione di molti pesci che venivano a galla ed erano recuperati dai pescatori bombaroli.

Naturalmente questo particolare tipo di pesca era proibito, non solo perché veniva danneggiato l'ambiente marino spesso in maniera irreparabile, ma anche perché questa pratica era estremamente pericolosa per coloro che preparavano la bomba; spesso infatti succedeva che l'esplosivo saltasse in aria quando ancora era nelle mani del "pescatore". In giro infatti, all'Argentiera, si vedeva più di una persona senza un braccio o una mano, proprio a causa di tali incidenti; credo che sia morto anche qualcuno, dilaniato dalla bomba che stava preparando.

L'altro avvenimento che aveva portato l'Argentiera agli onori della cronaca fu l'assassinio di una bambina di dieci anni da parte di un ragazzo di diciassette anni, figlio del barbiere. L'episodio si sviluppò secondo uno schema direi classico, nel senso che tante volte si sentono episodi di cronaca nera che hanno uno svolgimento molto simile a questo.

La bambina era improvvisamente sparita: apparteneva ad una famiglia di basso rango con rapporti strani tra moglie, marito, amante, parenti dell'amante. Insomma una famiglia nella quale certamente la bambina non era seguita attentamente e anzi spesso veniva abbandonata a se stessa.

Quando inizialmente la bambina non si trovava, i genitori non si preoccuparono moltissimo, anche perché all'Argentiera non erano mai successi episodi di delinquenza, ritenendo che la figlia si fosse allontanata giocando con altri bambini. Quando calò il buio però si preoccuparono ed avvisarono il Brigadiere Sella, comandante della brigata delle Guardie di Finanza che operavano anche come controllori dell'ordine pubblico.

Tutti cominciarono allora a cercare la bambina per tutta la sera e credo anche per parte della notte. Si guardò in mare, sulla spiaggia, pensando che la bambina potesse essersi recata in spiaggia e poi magari essere annegata, ma anche nelle colline attorno alla piazza principale, al margine della quale abitava la famiglia della piccola.

Le ricerche furono però del tutto infruttuose: della bambina non c'era traccia.

A questo punto credo che siano stati interessati i Carabinieri della Tenenza di Sassari che vennero il giorno dopo con i cani poliziotto.

quella sera però avvenne anche un altro fatto che fece pensare alla presenza di un qualche maniaco e delinquente venuto chissà da dove: il barbiere si recò dal brigadiere Sella per denunciare il fatto che il figlio, appunto la sera dopo l'imbrunire, era stato avvicinato da un brutto ceffo che l'aveva minacciato con il fucile, lo aveva fatto spogliare, lasciandolo in mutande, e poi si era dileguato nel buio. Il ragazzo era ritornato a casa molto scosso e aveva raccontato tutto al padre. La presenza di questo bandito venne automaticamente collegata alla sparizione della bambina e perciò il brigadiere Sella e il medico dott. Gaia si recarono a casa del ragazzo per avere maggiori informazioni. Il racconto però era subito sembrato troppo preciso e pieno di particolari che dato il buio e lo spavento presumibile il ragazzo non avrebbe dovuto ricordare; inoltre il dott. Gaia che lo aveva visitato pensò che in realtà il ragazzo non fosse terrorizzato come ci si sarebbe aspettato in una situazione del genere.

Il brigadiere Sella decise allora di portare il ragazzo nella cella della caserma e di interrogarlo a dovere. Secondo i maligni usò le maniere forti, fatto sta che il ragazzo confessò di avere ucciso la bambina ma non volle dire né dove fosse il corpo né dove avesse nascosto i vestiti che aveva detto essergli stati tolti dal brutto ceffo; si pensò che forse aveva confessato per paura di prendere altre botte.

L'indomani i carabinieri sguinzagliarono i cani poliziotto dopo aver fatto loro annusare degli indumenti del ragazzo ed essi incominciarono a percorrere varie strade dove presumibilmente egli era passato.

La mattina, domenica, mentre eravamo nel piazzale della chiesa si sentirono delle urla provenire dalla piazza: qualcuno gridava che era stata trovata la bambina. In effetti di lì a poco le forze dell'ordine si recarono in un anfratto vicino alla falegnameria, a due passi dalla piazza e trovarono il corpo senza vita della piccola.

Lo sgomento fu grande e tutti ci chiedemmo come fosse stato possibile che un fatto così grave fosse accaduto proprio lì, praticamente sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno si fosse accorto di niente.

Intanto i cani poliziotto continuavano a percorrere gli itinerari che aveva seguito l'assassino, fino a quando trovarono gli indumenti che erano stati nascosti tra le rocce in mare vicino al ponte, dalla parte della spiaggia del minerale. A quel punto fu evidente a tutti che l'assassino, dopo aver ucciso la bambina, si recò al mare, si spogliò e tornò a casa all'imbrunire raccontando la storia della aggressione subita.

In realtà con i ricordi di tante persone poi si riuscì a ricostruire tutti i movimenti del ragazzo dopo l'omicidio: egli ritornò alla barberia dove fece la barba a Franco Tinti che se la prese con lui perché gli tremava la mano e appariva nervoso, dopo andò al dopolavoro e si mise a giocare a biliardo ed infine, all'imbrunire, andò via e, presumibilmente, si recò al mare per spogliarsi ed inscenare la finta aggressione.

Rimanemmo molto scossi per tanti giorni ma poi piano piano la vita ritornò a scorrere normalmente.

Un altro avvenimento che scosse le coscienze delle "persone per bene" fu l'arrivo di un'amica di Renata, Marika, che, eravamo nell'estate di un anno fine anni 50 o inizio anni 60, non ricordo bene, quando andava al mare indossava, come costume da bagno, il bikini! Apriti cielo! Le signore, mogli degl'impiegati, incominciarono a gridare allo scandalo e anche tra gli uomini, quelli più puritani (ed ipocriti) protestarono soprattutto perché in spiaggia c'erano i bambini che non potevano assistere ad uno spettacolo così osceno; e giù tutta la serie classica di frasi come: "dove andremo a finire", "non esiste più il pudore" , "che tempi", "i giovani di oggi non hanno un minimo di rispetto" e così via. Al circolo non si parlava d'altro e alcune signore, data la posizione gerarchica dei loro mariti, fecero un'interrogazione al Direttore per chiedere che intervenisse per porre fine a quella situazione insostenibile. Anche la Guardia di Finanza fu interessata al problema ma poi non successe nulla e piano piano la cosa perse d'importanza anche perché Marika dopo un po' andò via. In realtà Marika dava fastidio non solo per il bikini ma anche per il suo atteggiamento un po' spavaldo e spregiudicato che non era quello accettato all'Argentiera dove ancora le ragazze erano morigerate e rispettose del pudore e dei valori di allora oltre che timorate di Dio.

L'ultimo avvenimento particolare che io ricordo avvenne diversi anni più tardi quando la figlia di un impiegato di alto rango si mise ad amoreggiare con un finanziere di mare. La vicenda fece scalpore non solo perché i due non facevano molto per nascondersi, cosa già di per sé disdicevole, ma soprattutto perché la differenza di classe sociale tra i due era notevole: lei figlia di un dirigente della miniera, studentessa universitaria(?) e comunque prossima laureata e lui un ragazzotto, finanziere semplice, sì belloccio ma senza arte né parte. Sembrava evidente a tutti che doveva trattarsi solo di pura attrazione sessuale che allora non poteva essere tollerata. Effettivamente la ragazza aveva un atteggiamento, un portamento e caratteristiche tali da far pensare al sesso non appena la si guardava, per cui la relazione poteva avere senso solo come un qualcosa di morboso e quindi scandalosa, dal momento che altrimenti quei due non avrebbero avuto alcuna possibilità di poter instaurare una relazione per via della loro differenza di classe sociale. La situazione rischiava di diventare ingovernabile: la madre della ragazza intervenne affinché il finanziere venisse trasferito istantaneamente soprattutto dopo che i due, così dissero le persone bene informate, avevano osato baciarsi alla luce del sole sotto la scalinata che porta alla chiesa! Scandalo nello scandalo. Non so poi cosa successe, ma la vicenda, anche questa, come é logico, si sgonfiò e non se ne parlò più. Il finanziere probabilmente se ne andò alla fine dell'estate, la ragazza riprese a studiare e quindi andò via e la vita ricominciò a scorrere con i soliti ritmi di tutti i giorni, in attesa probabilmente di qualche altro sussulto.

Certo, viste alla luce di oggi queste cose appaiono ridicole, ma allora facevano parte del modo di pensare comune, così come diverso da oggi era il cosiddetto comune senso del pudore.

Gli anni passavano e piano piano diventavamo grandi: Nietta si diplomò e incominciò ad insegnare nelle scuole serali e dopo tre anni mi diplomai anche io.

In quegli anni già si parlava della chiusura della miniera. Prima erano delle voci, qualche sentito dire, poi dei segnali più importanti, l'arrivo dell'ing. Meloni che si diceva sarebbe stato quello che avrebbe chiuso la miniera. Babbo lavorava ora al magazzino. quel lavoro gli creava grossi problemi perché riteneva che la responsabilità fosse troppo grande e che egli non fosse all'altezza del compito. In realtà succedeva che una persona che lavorava al magazzino prima che arrivasse lui con il quale Babbo era amico e al quale si rivolgeva per chiedere aiuto nel primo periodo, si rivelò un falso che dava dei consigli sbagliati e poi andava dal Direttore a dire che assolutamente Babbo non andava bene per quel lavoro e che bisognava toglierlo da lì. Per fortuna il Direttore capì la situazione anche perché aveva una grande stima di Babbo riguardo l'onestà, l'impegno e le capacità, per cui trasferì quella persona e da quel momento Babbo poté lavorare serenamente dimostrando anche in quel caso il suo valore, tanto che venne mandato anche in alcune miniere dell'Iglesiente quando queste chiusero e si dovettero azzerare i magazzini.

Il primo lavoro che feci mi fu commissionato proprio dall'ing. Meloni che mi diede l'incarico di rilevare l'impianto elettrico esterno che alimentava le abitazioni di tutta la miniera. Poi capii che questo lavoro serviva, assieme a tanti altri, a rilevare la situazione patrimoniale necessaria alla valorizzazione della miniera in vista della vendita conseguente alla chiusura.

Si fecero diversi tentativi per scongiurare la chiusura. Lo stesso ing. Meloni rifiutò inizialmente quest'idea perché si rendeva conto che tale chiusura avrebbe significato la perdita del lavoro per quasi un migliaio di persone. Cercò di impostare un serio programma per la ricerca di altri filoni ricchi di minerale, e verificando, attraverso gli studi del terreno, che sotto il mare dovevano esserci dei giacimenti particolarmente ricchi. Per poter sfruttare questi giacimenti però gli investimenti sarebbero stati molto grandi e la Società non aveva alcuna intenzione di spendere tanti soldi in qualcosa che non dava certezza da un punto di vista economico data la mutata situazione internazionale che già vedeva un progressivo aumento degli scambi commerciali tra i paesi europei. Ciò significava che, pur con tutta la buona volontà, il costo del minerale estratto in Sardegna e portato in Continente dove c'erano le industrie manifatturiere non avrebbe mai potuto competere con quello di uno stesso minerale proveniente dai paesi europei in quanto per questi ultimi l'incidenza delle spese di trasporto era sensibilmente inferiore. La fine dell'Argentiera e di tutte le altre miniere sarde era perciò segnato.

Tra le iniziative intraprese in quel periodo per scongiurare la chiusura ricordo il ricorso alla stampa nazionale oltre a quella locale. Il mensile Panorama si interessò molto al problema con tanti articoli e tante fotografie ma anche questo non servì.

La nostra famiglia fu tra le ultime a lasciare la miniera con un grande dispiacere di Babbo e Mamma.

Quando questo avvenne io lavoravo già e stavo a Sassari a casa di Nietta che si era sposata proprio l'anno del mio diploma.



 

 

 

 

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