Castelmeteo. Un sito dedicato a Castelvetro di Modena, meteorologia, arte, gallerie di foto antiche, moderne e la storia dell'antica fornace. A cura di Vinicio Cavallini
LA MIA ARGENTIERA
Non è mai facile raccontare la storia di un paese, perché essa è l'insieme di 
fatti e di comportamenti, è l'unione di fatti che generano comportamenti e di 
comportamenti che generano fatti. E spesso è difficile distinguere gli uni dagli 
altri. I ricordi poi si accavallano nella mente e si fa fatica a rimetterli in 
ordine cronologico. La mia struttura mentale, inoltre, è tale per cui rimuovo 
molto del mio passato. Ci sono persone che ricordano perfettamente i primissimi 
anni di scuola, mentre io non ricordo nulla. E' vero che il primo anno lo feci 
da auditore, ossia da privatista; avevo cinque anni e non potendo perciò 
frequentare la regolare prima elementare, dovevo andare a lezione privata e poi 
fare l'esame per superare il primo anno e poter essere iscritto regolarmente al 
secondo anno all'età di sei anni. Dato che sono nato nel 1943, quando ero 
auditore correva l'anno 1948/49: Quanto tempo fa! Non c'erano difficoltà perché 
facessi le lezioni private dal momento che abitavamo di fianco alla signora Noce 
le cui tre figlie erano maestre ed insegnavano nella nostra scuola. Non ricordo 
quale di loro mi fece lezione o se addirittura io frequentassi ugualmente le 
lezioni a scuola, in forma, diciamo, ufficiosa. Abitavamo sopra la Cantina: noi, 
la famiglia Noce appunto e dall'altra parte la famiglia Zannin, la famiglia 
Ceraulo, e, poco più in là, zia Speranzica e mastro Eligio. 
Il mio paese era una miniera. Una miniera non ha niente a che vedere con un 
paese: é una comunità nella quale la gente proviene da tanti posti diversi, 
quindi cosmopolita; la struttura di una miniera è diversa da quella di un paese: 
le case sono differenti e disseminate un po' qua e un po' là senza uno sviluppo 
logico che possa portare alla formazione di strade regolari e di piazze come 
appunto succede in un paese. La caratteristica cosmopolita significava anche che 
non esisteva un dialetto unico per tutti, la lingua comune era l'italiano. 
C'erano infatti persone di Sassari, di Alghero, di Sorso, di Portotorres, del 
Nuorese, del Cagliaritano, e poi c'erano veneti, toscani, siciliani, milanesi; 
ogni tanto circolavano anche francesi e belgi. La Cantina era l'unico negozio 
dove si potevano acquistare i generi alimentari, frutta e verdura e, in un 
secondo tempo, anche scarpe e vestiario( solo dopo qualche anno fu concesso a 
dei privati di gestire un negozio di frutta e verdura e una macelleria ). Era 
gestita dalla Società proprietaria della miniera e al momento dell'acquisto 
delle merci non si pagava: ogni famiglia aveva un "libretto" nel quale veniva 
segnato dagli addetti, dipendenti della Società, tutto ciò che si acquistava. 
Alla fine del mese venivano effettuati i conteggi e l'importo che ne scaturiva 
veniva trattenuto dalle buste paga dei titolari dei libretti. Naturalmente 
c'erano spesso delle contestazioni da parte di coloro che nutrivano scarsa 
fiducia sulla serietà degli addetti alla cantina e talvolta succedeva alle 
famiglie più numerose o a quelle più spendaccione di superare la paga mensile e 
perciò di andare "di sotto" come si usava dire.
Per noi bambini andare a fare la spesa era il più delle volte una rottura di 
scatole perché bisognava fare la fila, ma talvolta era anche un divertimento 
perché si sentivano un mucchio di storie e di pettegolezzi. Lo spiazzo davanti 
alla cantina era il posto dove noi giocavamo ai vari giochi di quel tempo: al 
pallone, con il cerchio, alle cinque pietre, con i carretti costruiti dai 
bambini più grandi che non capivo mai come facessero a procurarsi i cuscinetti a 
sfera che mi attiravano tanto. Il gioco che mi emozionava di più era quello dei 
bottoni, che normalmente giocavamo davanti a scuola perché lì non passavano 
automezzi e quindi potevamo stare inchinati senza preoccuparci di ciò che 
accadeva intorno; Ninuccio era sicuramente il più bravo, quello che possedeva 
più bottoni in assoluto e quello che aveva i bottoni più rari, cosa per cui era 
invidiato da quasi tutti noi; consisteva nel riuscire a spingere il proprio 
bottone con le dita fino a farlo cadere all'interno di una buca chiamata "garicio": 
colui che riusciva in questo intento prima degli altri partecipanti vinceva 
tutti i bottoni in gara. Era insomma una specie di golf dei "molto" poveri!
Davanti alla Cantina la Società faceva accatastare talvolta i tronchi di legno 
che servivano poi per armare le gallerie e queste cataste erano il luogo ideale 
per giocare a nascondino, soprattutto nelle calde notti d'estate, quando i 
grandi si radunavano per chiacchierare e ascoltare storie incredibili raccontate 
il più delle volte da sig. Ceraulo.
Nelle sere d'inverno invece una delle cose che ci dava più emozione era andare a 
"rubare legna" ossia andare a raccogliere i pezzi di tronchi marci che erano 
stati tolti dalle gallerie ed utilizzarli nel caminetto di casa. L'emozione 
nasceva dal fatto che ci dicevano che era proibito prenderli e che se ci 
avessero trovato le guardie giurate sarebbero stati guai grossi! Non ho mai 
saputo se ciò fosse vero o se fosse una invenzione dei "grandi" per divertirsi 
nel vederci preoccupati dopo che eravamo riusciti a rubarne qualche pezzo. I 
tronchi bruciavano bene anche perché erano intrisi di sostanze velenose 
necessarie per evitare che fossero attaccati dai tarli quando venivano usati 
come "quadri". Il legname infatti serviva principalmente ad armare le gallerie, 
ossia a realizzare un arco (quadro) in legno che reggesse la volta della 
galleria stessa e ne impedisse il crollo sopra gli operai che lavoravano. 
C'erano perciò delle vasche piene di tali veleni nelle quali venivano immersi i 
tronchi prima della loro utilizzazione e noi non potevamo nemmeno avvicinarci a 
tali vasche data la loro pericolosità.
Del periodo in cui siamo stati "in cantina" i riferimenti principali erano 
l'ufficio di Babbo, il compressore e zia Speranzica con il figlio mastro Eligio: 
l'ufficio di Babbo era chiamato Ufficio Cottimi, perché lì si svolgeva il lavoro 
di conteggio delle ore lavorate dagli operai e delle quantità di minerale 
estratto da ognuno di loro: si chiamava cosi perché il lavoro era a cottimo, 
cioè più uno estraeva minerale nelle otto ore di lavoro e più era pagato; era 
l'applicazione del metodo Bedau (un Francese o Belga che aveva inventato questo 
modo di lavorare per far rendere di più gli operai). L'ufficio di Babbo è per me 
associato al ciclismo, perché durante il Giro d'Italia o il Tour de France ogni 
giorno ascoltavo alla radio l'arrivo della tappa e poi andavo da Lui per fare il 
resoconto, snocciolando l'ordine di arrivo con i minuti di distacco (allora 
l'unità di misura dei distacchi era sicuramente il minuto e non il secondo come 
oggi!), la classifica generale aggiornata e gli episodi più significativi 
accaduti nella tappa. Non entravo però nell'ufficio, mi fermavo vicino ad una 
piccola finestra che risultava molto bassa rispetto al terreno tanto che quasi 
mi dovevo coricare in terra per parlare con Babbo. Tutto ciò avveniva 
puntualmente ogni pomeriggio e questo incarico mi serviva per evitare di 
coricarmi dopo pranzo, cosa che odiavo sopra ogni altra. A casa di nonna questa 
mia idiosincrasia era motivo di scontro con zia Antonietta che voleva sempre che 
mi coricassi perché bisognava riposarsi o perché c'era la "mamma del sole" che 
mi avrebbe creato non so quali brutte cose! In realtà lei non voleva fastidi 
quando poi si sarebbe coricata, ma soprattutto non voleva che io passassi in 
continuazione in cucina e nel soggiorno mentre lavava in terra, cosa per la 
quale, mi dicono anche oggi, avevo proprio un talento naturale!
Andare da Babbo per il resoconto della tappa, significava dimostrare a me stesso 
molto coraggio dal momento che l'ufficio risultava alle spalle del temutissimo 
compressore. Serviva ad inviare aria compressa all'interno della miniera per 
fornire una giusta areazione agli operai che vi lavoravano (in seguito l'aria 
compressa servì anche per automatizzare alcune operazioni di scarico dei vagoni 
pieni di minerale che arrivavano dal pozzo). Aveva un grandissimo volano, penso 
almeno due metri di diametro, che già incuteva un po' di paura, ma la cosa che 
temevamo molto era il momento in cui veniva scaricata l'aria in eccesso perché 
il rumore che faceva era fortissimo, come quello di una bomba, anche se non 
c'era alcun pericolo. Quando si passava di fronte percorrendo la curva, detta 
appunto del compressore, nel momento in cui l'addetto scaricava improvvisamente 
l'aria lo spavento era grandissimo e, quando succedeva a me, mi mettevo a 
correre impazzito e mi ritrovavo in cantina senza nemmeno rendermene conto. La 
cosa incredibile era la fase di avvicinamento alla curva piena di ansia 
crescente mano a mano che mi avvicinavo, che faceva sì che io, ad un certo 
punto, effettuassi uno scatto da centometrista per superare il punto critico nel 
più breve tempo possibile; in definitiva la curva del compressore la percorrevo 
sempre di corsa, ad eccezione della domenica e dei giorni di festa nei quali in 
miniera non si lavorava e perciò il compressore era spento.
Credo che il momento in cui veniva scaricata l'aria fosse casuale o quantomeno 
dipendente da ragioni tecniche ma certamente qualcuno degli addetti talvolta lo 
faceva apposta, per divertirsi a osservare qualche persona che, spaventata, 
reagiva in modo curioso. Una delle persone soggette a questo scherzo era 
sicuramente zia Speranzica: viveva in una casupola posta in un piccolo 
promontorio sopra la curva del compressore e quindi di fronte al compressore 
stesso, con il figlio mastro Eligio, un fabbro che lavorava nell'officina 
meccanica che c'era a pozzo Podestà. Erano persone che non facevano niente di 
male ma stavano sempre bisticciando a voce alta e se ne dicevano di tutti i 
colori, rigorosamente in dialetto portotorrese quando erano sobri e in italiano 
quando erano ubriachi. Zia Speranzica spettegolava un po' di tutti soprattutto 
di quelli che la trattavano male e la prendevano in giro, ma devo dire che la 
nostra famiglia era da lei considerata una famiglia per bene perché non la 
offendevamo mai e perché quando la incontravamo salutavamo sempre in maniera 
educata: <<buon giorno zia Speranzica>>, e questo le faceva piacere. Io ero 
convinto che mastro Eligio fosse il marito di zia Speranzica; che fosse il 
figlio e non il marito lo scoprii abbastanza tardi, anche se li conoscevo da 
quando ero nato. Quando avrò avuto sei o sette anni, un giorno, ero in cantina 
nel reparto di frutta e verdura nel quale si trovava anche mastro Eligio che 
comprò tre carciofi: erano i primi della stagione e perciò qualcosa di raro e 
costoso; vedendo che io stavo per andare via mi disse: "vai e porta questi tre 
carciofi a mamma". Io andai a casa e dissi a mia madre che mastro Eligio mi 
aveva dato quei tre carciofi per lei; mamma si meravigliò un po' di tanta 
gentilezza ma poi non ci pensò più. Verso mezzo giorno venne a casa zia 
Speranzica a chiedere che fine avessero fatto i suoi carciofi, cioè quelli che, 
diceva, mastro Eligio mi aveva dato da portare a lei. Non ricordo se almeno uno 
lo avessimo già mangiato, fatto sta che dopo una lunga discussione tra me, mia 
madre e zia Speranzica scoprii che mastro Eligio era il figlio e non il marito 
di zia Speranzica e che perciò i carciofi erano per sua madre e non per la mia. 
Chiarito l'equivoco tutto si aggiustò, anche se non so se Mamma ricomprò e 
restituì alla legittima proprietaria il carciofo mancante.
Malgrado questo episodio increscioso(!) i rapporti con zia 
Speranzica e mastro Eligio rimasero buoni.
Devo dire , per la verità, che avevamo buoni rapporti con tutti anche perché le 
persone che ci vivevano accanto erano tutte buonissime.
Ero sempre di corsa, io non camminavo, correvo: era la mia passione, sia quando 
facevo "la moto", sia quando facevo le gare, che vincevo regolarmente; era anche 
qualcosa di utile perché quando qualche bambino più grande mi voleva picchiare, 
io avevo sempre la mia arma segreta che era fuggire, sapendo che l'aggressore 
difficilmente mi avrebbe raggiunto! però anche qualche problema l'ho avuto, come 
quella volta che mi sono "abbracciato" alla vespa di Mario Pala, mentre uscivo a 
tutta velocità dalla stradina di casa e lui percorreva la strada di fronte alla 
cantina in direzione di miniera vecchia. Mario Pala era l'infermiere 
dell'Argentiera che tutti i giorni faceva il giro degli ammalati che avevano 
bisogno di qualche iniezione o di qualche medicazione e che non potevano recarsi 
in infermeria. Già perché una miniera è uno stabilimento industriale, in questo 
caso lontano ben 40 chilometri dal più vicino ospedale, e quindi necessitava di 
un presidio sanitario con la presenza di un medico e di almeno un infermiere. 
Anche il medico faceva tutti i giorni il giro degli ammalati che erano costretti 
a letto per seguire il decorso della malattia. Il dottor Serra, così si chiamava 
il dottore che ho conosciuto io, era l'unico oltre al direttore della miniera a 
possedere un'automobile; era molto simpatico, abbastanza alto e magro come uno 
stecco, bravissimo pianista, che stava tutto il giorno lucidandosi la macchina 
dopo che aveva finito il giro delle visite.
Nell'incidente con la vespa di Mario Pala in realtà non mi feci nemmeno un 
graffio, solo un po' di spavento per cui me ne tornai a casa senza dire niente a 
mamma; dopo un po' arrivò Mario Pala a chiedere come stavo e mamma cadde dalle 
nuvole perché non ne sapeva niente!
L'altra volta che ebbi dei problemi a causa delle mie corse fu quando, andando 
da zio Pazzola, un fruttivendolo sennorese che aveva il negozio dopo la Laveria, 
percorrendo la piazza velocissimo mi attraversò la strada una muta di cani, 
saranno stati una quindicina; io ci finii in mezzo cadendo rovinosamente a 
terra, mi sfasciai un ginocchio e perciò, dolorante e pieno di sangue, me ne 
tornai a casa senza nemmeno arrivare al negozio.
Di fronte a zio Pazzola c'era la macelleria di Dedola nella quale si faceva 
anche il ghiaccio : era sempre una cosa curiosa vedere questi grandi pani di 
ghiaccio che si formavano in modo per me misterioso; nessuno sapeva mai 
spiegarmi come diavolo venissero fuori dall'acqua!
Si scendeva in piazza anche per andare a comprare il latte alla latteria di zia 
Dassu: anche lì bisognava fare la fila e spesso succedevano delle zuffe perché 
qualcuno non rispettava il suo turno. Una volta, mentre con Claudio ritornavamo 
a casa dopo aver comprato il latte, ci fermammo nel piazzale vicino a pozzo 
Podestà e ci mettemmo a giocare con i carrelli che venivano usati per 
trasportare il minerale dal pozzo alla Laveria; questi carrelli correvano su dei 
binari, noi cercavamo di spingerne uno ma siccome era pesante non ci riuscivamo; 
allora io feci forza sulle ruote e quando il carrello si mosse una delle ruote 
mi passò sopra le dita delle mani, schiacciandomele. La cosa strana fu che 
praticamente mi trasudò il sangue dalle dita senza che ci fossero delle ferite. 
Quando arrivammo a casa Mamma si spaventò e io per paura di essere picchiato, 
perché ci avevano sempre detto di non giocare con i carrelli, raccontai che mi 
ero sbattuto al carrello mentre correvo.
La piazza era il punto di aggregazione per tutta la miniera: c'erano gli uffici 
della direzione, l'ufficio postale, la caserma delle guardie di finanza, il 
dopolavoro operai e il circolo impiegati.
Era anche il punto di arrivo della corriera(mi piace chiamarla così, come la 
chiamavamo noi, e non pullman o autobus che sanno molto di città).
Per andare a Sassari esisteva solo una corsa: si partiva la mattina alle cinque 
e mezza, per arrivare dopo due ore e 42 chilometri di strada bianca tutta a 
fossi. Il viaggio sembrava molto simile a quelli delle diligenze dei film 
western perché oltre al fatto che la corriera si fermava in qualunque punto 
della strada dove ci fosse una persona che aspettava, quando si arrivava 
all'Emiciclo ognuno di noi era bianco dalla polvere, stanco e con la bocca secca 
per cui la prima cosa che faceva era entrare al bar per bere qualcosa.
Il viaggio di ritorno iniziava all'Emiciclo alle tre e mezza del pomeriggio e 
terminava in piazza alle cinque e mezza. L'arrivo della corriera era sempre un 
avvenimento e perciò a quell'ora c'era sempre un capannello di persone che si 
trovavano li, chi per aspettare un familiare, chi per curiosare e se del caso 
poi spettegolare e recare notizie fresche a casa sulle novità portate dalle 
persone che arrivavano dalla città. Proprio come nel vecchio west quando 
arrivava la diligenza. Infatti c'era anche una serie di invii da e per Sassari 
di buste, pacchi e pacchetti che venivano affidati all'autista o al fattorino 
per essere consegnati poi a qualche parente che aspettava o all'Emiciclo o in 
piazza.
Le valigie e i bagagli più grandi venivano messi sull'imperiale(il tetto del 
pullman) al quale si accedeva salendo su una scala a pioli attaccata alla parte 
posteriore della corriera. Ogni tanto qualche bagaglio volava per strada, quando 
non era stato fissato bene ed allora bisognava fermarsi per raccoglierlo. 
Proprio come nelle diligenze!
Non era possibile andare e tornare in giornata partendo da Sassari. Chi arrivava 
all'Argentiera in corriera doveva per forza pernottare lì.
Quando stavamo in "cantina", in piazza non andavamo spesso, se non per qualche 
motivo specifico, perché preferivamo giocare vicino a casa. Soltanto Babbo, 
terminato il lavoro, andava lì soprattutto per recarsi al circolo impiegati.
Già, perché per nostra fortuna(!) Babbo era un impiegato!
La suddivisione in classi sociali era molto marcata in miniera: C'era il 
Direttore, il vice direttore, gli impiegati, suddivisi in tecnici ed 
amministrativi ( i tecnici erano leggermente più importanti ) e gli operai. 
C'erano poi il Parroco, il comandante delle guardie di finanza, il medico, che 
pur non facendo parte della scala gerarchica della miniera erano ovviamente 
delle persone importanti e quindi assimilabili agli impiegati.
Che questa suddivisione esistesse era normale, come d'altra parte lo è oggi, 
perché in definitiva essa scaturisce dalle differenti mansioni che uno ha, ma a 
quei tempi e in un luogo chiuso come era la miniera, queste differenze 
significavano l'applicazione di una sorta di apartheid: il circolo impiegati, 
dove si andava per bere qualcosa nel bar interno, giocare al biliardo o a ping 
pong, giocare a carte, chiacchierare con i colleghi, guardare la televisione ( 
quando arrivò il tempo della televisione ), era riservato agli impiegati e ai 
loro familiari: gli operai non potevano entrarci e nemmeno i loro familiari, a 
meno che non fossero accompagnati da un impiegato, cosa che peraltro succedeva 
molto raramente. Una volta mi capitò di portare il figlio di un operaio per 
giocare al biliardo e il giorno dopo Babbo venne richiamato dal Direttore 
affinché una cosa del genere non si ripetesse! 
Gli operai avevano il dopolavoro che essi utilizzavano per fare praticamente le 
stesse cose, solo che lì gli impiegati potevano entrare senza che nessuno avesse 
il diritto di protestare. Gli impiegati comunque raramente andavano lì perché 
l'ambiente non era certo dei migliori. Rimane il fatto che gli impiegati avevano 
il diritto di entrare al dopolavoro ma gli operai non avevano ugual diritto di 
entrare al circolo.
Anche in "cantina", quando si mettevano uno sopra all'altro i libretti per 
rispettare l'ordine di arrivo ( un po' come si fa alla USL di via Zanfarino con 
le ricette ), c'erano due file di libretti: quella degli impiegati e quella 
degli operai. Ma la cosa più incredibile ( oggi! ) é che anche in spiaggia 
esisteva tale distinzione. All'inizio del periodo estivo, infatti, la Società 
faceva piazzare sulla sabbia delle strutture in legno con la copertura di canne 
per creare una zona di ombra abbastanza ampia dal momento che allora non 
esistevano gli ombrelloni o comunque lì non c'erano. Naturalmente le strutture 
erano due: una per gli impiegati ed una per gli operai, e, altrettanto 
naturalmente, in quella degli impiegati non potevano stare gli operai mentre in 
quella degli operai potevano andarci benissimo anche gli impiegati!!
Succedeva perciò che se io dovevo giocare con il figlio di un operaio, che 
magari era un mio compagno di scuola, mi dovevo spostare nella struttura degli 
operai: il contrario non era consentito. Talvolta poteva anche succedere, ma per 
non creare problemi doveva essere un episodio casuale ed isolato.
Questa sorta di apartheid era peraltro "normale" in miniera e 
tutti la vivevano, a me pare di ricordare, con tranquillità come se fosse una 
cosa mandata da Dio e perciò accettata come qualcosa di ineluttabile. 
Probabilmente però gli operai e i loro familiari soffrivano di questa 
situazione, perché pochissimo tempo fa (siamo nel 2000) un mio compagno di 
scuola delle elementari, in una discussione con Nietta per un problema relativo 
alla festa di S. Barbara che si stava organizzando, ed evidentemente a seguito 
della insistenza di Nietta per far valere la sua tesi, ebbe a ricordare a Nietta, 
appunto, che erano finiti i tempi delle "baracche alla spiaggia..............." 
Come a dire che non esistevano più i privilegi di una volta e che ora siamo 
tutti uguali e perciò con uguali diritti. Evidentemente in questa persona, e 
chissà in quante altre, bruciava ancora il ricordo della umiliazione che aveva 
sentito da ragazzo per essere il figlio di un operaio.
Nel tempo comunque questa situazione si affievolì, pur con il mantenimento delle 
regole di cui ho parlato che durarono fino alla chiusura della miniera avvenuta 
nel 1963. Sempre più spesso succedeva infatti che qualche impiegato giovane si 
sposasse con la figlia di un operaio, o che ragazzi compagni di scuola 
continuassero a frequentarsi anche al di fuori della scuola stessa e che quindi 
i rapporti tra le persone si basassero più sulle caratteristiche personali che 
sul loro "status" di impiegati o operai. Naturalmente tutto ciò era anche frutto 
dei tempi che cambiavano, della maggiore circolazione dei giornali, dell'avvento 
della televisione e della maggior cultura anche delle famiglie di operai in 
molte delle quali i figli andavano a studiare, soprattutto nei seminari, spinti 
dai preti che speravano di far aumentare le vocazioni. Una delle cose che 
ricordo, a riprova di questa diminuzione, nel tempo, degli effetti causati dalle 
differenze sociali, é che negli ultimi anni di vita della miniera mi capitava 
spesso di giocare a biliardo, al circolo, con il direttore della miniera , 
allora l'ing. Meloni, grandissima persona, il quale, quando perdeva, mi 
chiedeva, scherzando, se a Cagliari io andassi per studiare o per imparare a 
giocare a biliardo. Solo una decina di anni prima una cosa del genere sarebbe 
stata impensabile.
Un altro motivo che servì in parte a mitigare gli effetti delle divisioni di 
classe fu la costituzione della squadra di calcio che, sicuramente voluta dalla 
Società perché ci fosse qualcosa di aggregante per la popolazione e soprattutto 
qualcosa che potesse distogliere la gente, almeno per un po', dai problemi 
sociali di quegli anni attraverso l'effetto "Bartali" (nel 1948 la sua vittoria 
al Tour de France aveva evitato la guerra civile in Italia dopo l'attentato a 
Togliatti). Era pian piano diventata una bella realtà perché la squadra era 
fortissima, almeno in campo provinciale, scontrandosi e spesso vincendo con la 
stessa Torres che mirava a raggiungere dei risultati consoni alla importanza di 
capoluogo di provincia. Il motivo per cui la squadra fosse così forte era da 
ricercare nel fatto che la Società, quando chiamava i giocatori più forti di 
allora, dava loro anche il lavoro e quindi essi, oltre che giocare al calcio 
avevano anche l'esistenza assicurata da un lavoro che ritengo fosse abbastanza 
ben retribuito per quei tempi: alcuni di questi erano proprio giocatori della 
Torres che naturalmente non potevano rifiutare una proposta così allettante. 
Molti di essi rimasero poi all'Argentiera a lavorare anche dopo che la squadra 
fu sciolta. I loro nomi sono ancora molto noti tra le persone di miniera e tra i 
vecchi tifosi della Torres. Devo dire che talvolta la squadra viene citata da 
"la Nuova" quando racconta di eventi sportivi di quegli anni e nomina qualcuno 
dei giocatori famosi che avevano giocato nella squadra dell'Argentiera. Sig. 
Gabbi e Franceschino Senes, portieri, sig. Ulivieri, terzino maledetto, 
sig.Pischedda, un undici alla Gigi Riva, Bardanzellu, di Calangianus, un 
centravanti alla Boninsegna, Mario Alias, mi pare centromediano, Placchi 
anch'Egli credo un centrocampista( mi piacerebbe sapere se la sig.na Placchi 
attuale giocatrice della Torres femminile Campione d'Italia e della Nazionale 
sia per caso nipote del Placchi dell'Argentiera), Dongu, zio Piero Scudino, e 
poi tanti altri di cui non ricordo più i nomi, erano i giocatori più noti, ma 
naturalmente c'erano anche molti nomi dell'Argentiera, ossia di tanti che 
vivevano già da prima in miniera e che si erano improvvisati giocatori ma con 
risultati ottimi. Babbo era il segretario della squadra, mentre il presidente 
era il direttore della miniera, l'ing. Zera. Claudio era la mascotte.
L'altro sport che per qualche anno venne praticato fu il pugilato. Chi lo 
introdusse fu un pugile professionista di Portotorres, Mario Solinas, che era 
stato campione Italiano, forse dei pesi medi. Venne a combattere anche Salvatore 
Burruni, credo da dilettante, che doveva diventare poi campione del mondo dei 
pesi mosca. La palestra era in piazza, una costruzione di legno, che fu 
realizzata a fianco della chiesa provvisoria, pure in legno. I miei ricordi però 
non sono vividi per cui é possibile che la palestra prese il posto della chiesa 
quando fu realizzata quella definitiva, che é poi quella attuale, vicino alla 
villa amministratori. Quando si organizzavano le riunioni anche il ring veniva 
allestito in piazza.
Quegli anni della scuola elementare furono per me anni tutto sommato tranquilli 
anche se ricordo qualche episodio spiacevole come l'infortunio a Francesco Sara, 
che, mentre lavorava come elettricista, rimase fulminato dalla corrente 
elettrica all'interno della cabina di trasformazione che alimentava la Laveria. 
Questo ricordo é sempre rimasto in me molto vivo perché questa persona, molto 
amica della nostra famiglia, era molto simpatica, benvoluta da tutti e perché 
solo qualche giorno prima, in una scampagnata durata tutto il giorno alla "Banderetta", 
ci aveva fatto divertire tanto con le sue battute.
Anche la malattia di Babbo si manifestò in tale periodo e nell'occasione le 
famiglie che abitavano vicino a noi ci aiutarono a superare quel momento 
difficile che poi si risolse, per fortuna, in maniera positiva.
Dal punto di vista strettamente scolastico, gli episodi importanti furono due: 
in terza ed in quinta Elementare.
Il mio maestro di terza era un uomo abbastanza robusto, bravo di carattere ma 
probabilmente non altrettanto come insegnante. Allora in terza si doveva 
sostenere l'esame di fine anno per essere promossi alla quarta. Io ero molto 
indietro un po' in tutte le materie ma soprattutto in matematica. Mamma cercava 
di farmi fare degli esercizi ma assolutamente non riuscivo a fare progressi, 
tanto che signorina Iole, una delle tre maestre che abitavano nella casa a 
fianco, amica e futura comare di Mamma in quanto dopo qualche anno avrebbe 
battezzato Piero, sentenziò che non ero abbastanza intelligente, non come Nietta, 
comunque, e perciò le disse di mettersi l'animo in pace. Per fortuna(!) in un 
periodo successivo il maestro si ammalò e fu sostituito dalla moglie, che non 
era proprio maestra in quanto non aveva conseguito il diploma, ma che aveva 
frequentato quasi tutti gli anni della magistrali. Non so perché non mandarono 
un vero sostituto, forse non ne trovarono uno disponibile a venire 
all'Argentiera per poco tempo o forse non avvisarono nemmeno il provveditorato 
perché il periodo sarebbe stato breve. Il risultato fu, comunque, che mamma notò 
un miglioramento notevole in me durante la sostituzione e quindi ne dedusse che 
il problema non stava in me ma nell'insegnante. Decise allora di non presentarmi 
all'esame e di farmi ripetere l'anno, per avere due risultati: farmi fare la 
terza in grazia di Dio e lasciare quel maestro che altrimenti avrei avuto anche 
in quarta e in quinta. Il maestro capì il motivo per cui non mi presentai 
all'esame, si offese molto e non rivolse più la parola a Mamma. L'anno dopo 
frequentai la terza a Portotorres con il maestro Castellaccio e a scuola non 
ebbi più problemi nemmeno in quarta e quinta, nelle quali, una volta rientrato 
all'Argentiera, ebbi il maestro Zanini, anche lui molto bravo. D'altra parte 
anche come età ero a posto avendo iniziato a cinque anni.
La quinta fu importante perché mi doveva dare la preparazione per poter 
frequentare la scuola media.
In quei tempi alla fine delle elementari, in quinta, appunto, bisognava 
sostenere un esame finale, ma successivamente era necessario sostenere un altro 
esame per poter essere ammessi a frequentare la scuola media, il famoso e temuto 
"esame di ammissione". La mia preparazione fu curata da signorina Lina, sorella 
di signorina Iole, che probabilmente aveva più pazienza o forse era più brava in 
quel compito, e comunque non aveva dato giudizi, poi rivelatisi affrettati, su 
di me!!! Superai brillantemente l'esame di ammissione e i tre anni successivi di 
scuola media li feci a Portotorres; abitavo a casa di signora Paolina che Mamma 
aveva conosciuto, in quanto abitava di fronte a noi, nell'anno in cui io avevo 
frequentato la "seconda" terza elementare e Nietta la prima media. Signora 
Paolina era una donna di grandissime qualità: non aveva studiato, credo che a 
mala pena sapesse leggere e scrivere, ma aveva una grande bontà ed una saggezza 
che non ho mai più ritrovato in nessun'altra persona. Aveva la dote rarissima di 
non provare rancore per alcuno, era sempre pronta ad aiutare chi aveva bisogno, 
a comprendere e perdonare anche le persone che talvolta le facevano del male o 
non le davano una mano quando era lei ad avere bisogno .
Mamma fu aiutata molto da Signora Paolina: era in cinta di Piero e credo che 
avesse avuto una gravidanza un po' difficile; inoltre ebbe difficoltà ad 
inserirsi e vivere in un paese un po' scorbutico come Portotorres con persone 
piene d'invidia e di pregiudizi, anche perché stava tutta la settimana da sola; 
Babbo veniva soltanto al sabato e ripartiva poi la domenica sera. L'amicizia che 
si creò fu davvero forte e tale rimase per sempre. Ancora oggi con i figli di 
signora Paolina abbiamo un rapporto fraterno in quanto a casa sua, nel periodo 
delle scuole medie, ero considerato da tutti un altro figlio.
Furono anni bellissimi anche perché diventando più grandi cominciavamo ad 
apprezzare le persone che ci circondavano.
Uno di questi era Nonno Ruggiu. Era il capo dell'officina falegnami, quindi 
falegname egli stesso, di grande cultura che poteva sostenere qualunque 
discussione su qualunque argomento. Era molto apprezzato da tutti, gli piacevano 
molto le opere liriche, le poesie sarde che comprendeva benissimo e per le quali 
sbavava, tanto che Zietta e Zia Antonietta quando nelle feste andava a sentire i 
poeti sardi, gli dicevano di portarsi il lavamani appunto per raccogliere la 
bava.
Noi pendevamo dalle sue labbra perché ci raccontava un mucchio di storie per le 
quali attingeva sia dalle fiabe che conosceva sia dalla sua vita che era stata 
piena di avventure. Erano fantastici i racconti di quando era finanziere al 
confine con la Svizzera, credo durante la prima guerra mondiale, dal momento che 
era nato nel 1890, con storie di contrabbandieri, di briccolle, di paura nelle 
notti fredde d'inverno, di guardia ai passi alpini, di spari nella notte, di un 
asino ucciso a fucilate perché il rumore della sua andatura sembrava uguale ai 
passi di un contrabbandiere che non si era fermato all'altolà.
Quando ci raccontava le sue storie noi non ci stancavamo mai di ascoltarlo e 
quando era lui a stancarsi allora introduceva nel racconto il passaggio di un 
gregge di pecore che però non finiva mai e perciò ci diceva che il racconto 
sarebbe continuato in un altro giorno una volta passate tutte le pecore.
Era amante dei gialli e dei processi per omicidio che avevano scosso l'opinione 
pubblica e che venivano raccontati sui giornali, così come delle arringhe degli 
avvocati che di volta in volta criticava a seconda del suo schieramento tra gli 
innocentisti o tra i colpevolisti.
Aveva naturalmente anche dei difetti che erano principalmente quello del bere e 
quello di sperperare i soldi. Noi ovviamente non ci rendevamo conto di questi 
difetti prima perché eravamo piccoli e poi, quando, diventati più grandi, Lui 
aveva diminuito la sua aggressività, non beveva più tanto (noi non l'abbiamo mai 
visto ubriaco) e non aveva più soldi da sperperare dopo che lo aveva fatto con 
tutte le proprietà di Nonna Ruggiu.
Dei suoi amici dell'Argentiera citava spesso il sig. Serpillo che doveva essere 
un uomo in gamba, visto che era amico suo. Questi é risultato essere poi il 
nonno del mio insegnante d'inglese all'università, il quale da piccolo veniva 
all'Argentiera appunto a trovare suo nonno.
Riguardo il suo lavoro andava fiero del periodo in cui aveva lavorato per il più 
famoso costruttore di mobili di Sassari che era Clemente, perché lavorare da 
Clemente significava essere dei bravissimi falegnami; tra i tanti racconti di 
quel periodo mi ricordo quello relativo alla costruzione di una culla che la 
città di Sassari aveva donato credo al Re D'Italia per la nascita del figlio: 
era un capolavoro!
Andava anche fiero di una invenzione che aveva fatto in miniera quando era 
riuscito a realizzare una applicazione per la pialla che consentisse di 
costruire dei settori circolari di legno che dovevano avere delle scanalature 
lungo le quali, una volta ricoperti di una tela robusta doveva passare aria 
compressa . Ciò avvenne credo durante la guerra in quanto non fu possibile 
approvvigionarsi di tali settori dalle ditte continentali che prima le 
fornivano.
Credo che in quella occasione la Società gli avesse dato un premio speciale per 
la bravura dimostrata .
Nel periodo delle scuole medie ci trasferimmo nella "casa di giù", ossia in 
un'abitazione più grande, prima occupata dalla famiglia di un impiegato che era 
stato licenziato. Il Direttore ci aveva dato questa casa in quanto nel frattempo 
i figli eravamo diventati cinque e la casa di "cantina" era diventata troppo 
piccola. Eravamo praticamente in piazza e questo significava anche una maggiore 
considerazione da parte degli altri. Inoltre avevamo un po' tutto a portata di 
mano, ad eccezione della cantina che risultava ora un po' lontana.
Noi stavamo diventando grandi e tante cose incominciavano a cambiare. Quasi 
tutti gli amici eravamo fuori a studiare e quindi ci vedevamo di meno; con 
alcuni ciò accadeva praticamente solo in estate. Io studiavo a Portotorres e 
rientravo il fine settimana utilizzando un pullman che partiva da Sorso, passava 
a Portotorres e proseguiva per Alghero percorrendo la strada dei due mari. 
All'incrocio di Juanne Abbas c'era la coincidenza con il pullman per 
l'Argentiera, proveniente da Sassari. Il lunedì mattina invece non c'era tale 
possibilità ed allora il più delle volte Babbo mi procurava un passaggio sui 
camion della società che trasportavano il minerale al porto di Portotorres per 
l'imbarco sulle navi che dovevano poi trasferirlo alle fonderie del continente.
Già perché in quegli anni la tecnologia avanzava e quindi cambiavano sia i 
metodi di estrazione del minerale, sia quelli relativi al suo trasporto una 
volta pronto.
I minerali presenti nel sottosuolo dell'Argentiera erano piombo, zinco e galena 
argentifera.
Esistevano due pozzi principali: Pozzo Podestà e pozzo Alda. Il primo era vicino 
alla cantina, mentre il secondo era a La Plata.
Il Pozzo era proprio un pozzo che scendeva fino a profondità di centinaia di 
metri dal quale si dipartivano, a vari livelli, diverse gallerie nelle quali si 
effettuava l'estrazione del minerale. Anche molte di queste gallerie erano 
collegate tra di loro, pur se a differenti livelli, attraverso altri pozzi di 
diametro molto più piccolo di quello principale che si chiamavano infatti 
fornelli. Scorrevano lungo il pozzo principale due montacarichi( penso fossero 
due anche se io ne vedevo uno solo, in modo che uno facesse da contrappeso 
all'altro) che servivano sia per il trasporto del personale, sia per il 
trasporto dei vagoncini che gli operai riempivano di minerale nelle gallerie. La 
miniera rimaneva in attività 24 ore su 24 ad eccezione della domenica che era il 
giorno di riposo per tutti. C'erano perciò tre turni di otto ore ciascuno che 
iniziavano rispettivamente alle 00, alle 8 e alle 16 di ogni giorno; il cambio 
del turno si chiamava "sciolta".
Una volta in superficie, i vagoncini pieni di minerale ancora in forma di pietre 
venivano spinti o tirati dai muli, fino alla Laveria.
La Laveria era per me una cosa misteriosa e per questo affascinante: era una 
specie di laboratorio che trasformava ciò che era stato estratto dal sottosuolo.
Quando arrivavano alla Laveria, i vagoncini venivano ribaltati e tutto il 
minerale scendeva in alcune tramogge a forma di tronco di piramide, con la punta 
in giù, collegate ad un primo frantoio dove veniva iniziata la fase di 
frantumazione delle pietre. Questo primo frantoio credo fosse a ganasce. mentre 
il secondo era a sfere. Non ricordo se ci fosse un terzo frantoio, ma il 
risultato finale della frantumazione era una polvere finissima, composta dai tre 
minerali e da materiale sterile, che attraverso dei nastri trasportatori, veniva 
scaricata nelle vasche di flottazione, ossia in vasche piene di acqua e altre 
sostanze. Veniva prodotta una schiuma che rimaneva in superficie e veniva 
raschiata da palette rotanti che la spingevano su altri nastri trasportatori. 
nel percorso su tali nastri la schiuma si asciugava e rimaneva il minerale. Da 
grande capii che in qualche modo veniva sfruttato il diverso peso specifico dei 
tre tipi di minerale perché essi potessero essere separati. Esistevano infatti 
tre serie di vasche, una per ogni tipo di minerale e tre nastri trasportatori 
diversi che convergevano tutti nella parte bassa della Laveria dove venivano 
utilizzati quei settori circolari che costruiva Nonno. Il minerale ormai 
lavorato veniva raccolto con dei vagoncini e immagazzinato all'interno di 
appositi spazi in attesa di essere poi trasportato in continente, mentre lo 
sterile veniva trascinato in mare con l'acqua di lavaggio del minerale stesso.
Mi pare che l'aspetto più evidente dell'avanzata della tecnologia fosse proprio 
il diverso metodo di trasporto del minerale in continente. Fino al termine della 
guerra e ancora qualche anno dopo esso veniva trasportato con i vagoncini fino 
al ponte costruito alla spiaggia e sistemato su barconi che lo portavano fino a 
dei bastimenti che si fermavano un po' al largo, nella baia. Non entravano mai 
all'interno della baia perché se il mare si fosse improvvisamente agitato 
sarebbero stati sbattuti sugli scogli come dei fuscelli, cosa che alcune volte 
era successa. La cosa stupefacente, almeno per me, era però un grandissimo 
carrello che veniva fatto scorrere su rotaie e posizionato sul ponte. Era su 
questo che scorrevano i vagoncini pieni di minerale che ad un certo punto 
venivano ribaltati ed il minerale finiva nei barconi. Era formato da due piani e 
quello superiore era allo stesso livello di due archi di circonferenza del ponte 
contrapposti nella parte concava su ognuno dei quali c'erano le rotaie più 
piccole sulle quali scorrevano i vagoncini; quello di destra(guardando il mare) 
era per il percorso di andata dei vagoni pieni e quello di sinistra per il 
ritorno dei vagoni vuoti. Lo scaricamento del minerale nei barconi avveniva 
attraverso delle tramogge ruotanti anch'esse montate sul carrello.
Dopo questo periodo incominciarono a vedersi dei camion e quindi il minerale 
veniva prima caricato sui camion che lo trasportavano fino al porto di 
Portotorres, scaricato sulla banchina e poi da lì preso e stivato con le gru 
nelle navi.
Questo nuovo metodo era più semplice ed economico ma sicuramente meno curioso e, 
se vogliamo, meno romantico.
La "casa di giù" era proprio di fronte alla Laveria. Credo che dalle finestre di 
casa e le pareti della Laveria non ci fossero più di venti metri. E' 
inimmaginabile il rumore che c'era con i frantoi e con tutti i motori che 
funzionavano giorno e notte. Noi però quasi non ci rendevamo conto di questo, 
anzi paradossalmente avevamo un senso di fastidio alla domenica quando gli 
impianti erano fermi. Senza il rumore ci sembrava di essere in una situazione 
irreale!!
Anche da un punto di vista pratico questa casa era migliore dell'altra perché 
risultava al centro della miniera; la vita sociale si svolgeva in piazza, sia 
nelle sere dei giorni feriali, sia alla domenica quando dopo la Messa, la 
mattina, tutti passeggiavano con i vestiti del giorno di festa. Il circolo era 
lì a portata di mano e perciò noi stavamo quasi sempre lì. C'era il bigliardo, 
il ping pong, una sala con dei tavolini dove si giocava a carte e dove più tardi 
fu installato il televisore, e naturalmente il bar . L'atmosfera era sempre 
molto bella, c'era sempre tanta allegria: i Grandi commentavano i fatti del 
giorno sia locali che nazionali o regionali, ma spesso anche i risultati di 
memorabili partite a bigliardo (all'italiana o a boccette) o a carte (di solito 
scopone scientifico). La posta in palio per queste partite era di solito un 
caffè o una bibita o più spesso un cioccolatino che il vincitore portava alla 
moglie o ai figli. Una volta Babbo, dopo aver vinto una partita a boccette, 
diede il cioccolatino che aveva vinto a sig. Col perché lo portasse a Fufolina. 
Un nostro amico maestro elementare di Portotorres (nipote di signora Paolina) 
che insegnava all'Argentiera, presente alla partita, si meravigliò che Babbo 
donasse il cioccolatino ad un cane! Solo più tardi venne a sapere che Fufolina 
era la figlia di sig. Col!!
In estate il tavolo da ping pong veniva portato all'esterno in un giardinetto 
prospiciente il circolo e lì le partite erano memorabili. Qualche volta si 
tentava di organizzare qualche ballo ma la cosa suscitava sempre qualche 
perplessità da parte dei Grandi.
Memorabili erano anche le feste di capodanno che venivano organizzate al 
circolo; naturalmente la prima nostra partecipazione a tale festa significava il 
nostro ingresso in società e quindi il riconoscimento ufficiale del fatto che 
non eravamo più bambini.
Ricordo quando portarono il primo televisore quanta emozione suscitò in tutti! 
per le trasmissioni più importanti ci riunivamo nella sala e i commenti erano 
veramente i più coloriti che si potessero sentire. Diciamo che spesso dire che 
vedevamo la televisione era un eufemismo perché in realtà si vedeva pochissimo 
in quanto non c'erano ripetitori vicini alla miniera e perciò spesso vedevamo 
delle ombre, ma già quella era una conquista. Paradossalmente si vedeva meglio 
quando c'era brutto tempo: probabilmente perché in quelle condizioni l'aria era 
meno ionizzata e il segnale, seppure debole, poteva arrivare senza distorsioni.
Ci avvicinavamo agli anni sessanta, la musica che irrompeva era il rock di Elvis 
Presley o di Little Richard, ma anche quello di Pat Boone che con il suo "Love 
Letters in the Sand" ci faceva morire di malinconia. Poi ancora Paul Anka con 
"Diana" e Neil Sedaka con "Oh Carol". Io studiavo a Cagliari, all'Industriale, e 
rientravo a casa solo a Natale, a Pasqua, e ovviamente in estate, alla fine 
delle scuole.
L'estate rappresentava il periodo più bello in assoluto. Naturalmente la vita 
era spensierata dato che, da ragazzi, le preoccupazioni erano tutte dei nostri 
genitori. Farci studiare significava per Babbo e Mamma grandi sacrifici 
economici, perché io stavo a Cagliari a pensione (per un anno anche Claudio che 
poi si ammalò alle gambe e perciò rimase a casa), e Nietta era a La Maddalena in 
collegio. Lo stipendio era solo quello di Babbo, ma con la testardaggine di 
Mamma e facendo veramente i salti mortali, erano riusciti a fare in modo che 
potessimo studiare. Noi sapevamo questo ma Loro non lo facevano pesare mai per 
cui la vita a casa era sempre molto serena.
La mattina eravamo sempre al mare con la spiaggia a nostra disposizione. Allora 
non veniva nessuno da fuori perché coloro che possedevano l'automobile erano 
pochissimi e per gli altri era più pratico andare ad Alghero o a Platamona. 
ovviamente non ci sembrava vero avere il mare tutto per noi ed inoltre vedevamo 
quelli di fuori come degli intrusi che volessero portarci via qualcosa di nostra 
proprietà. Ancora oggi d'altra parte quando vado all'Argentiera e vedo tanta 
gente "di fuori" che sembra padrona del posto mi infastidisco un po', 
soprattutto quando li sento parlare dei posti tipici come se fosse qualcosa che 
appartiene a loro, mentre ciò assolutamente non è vero. Talvolta mi è capitato 
di incontrare qualche conoscente che vedendomi all'Argentiera mi ha chiesto: 
"Anche tu qui?"!!!!!!!
La compagnia era molto bella ed eravamo quasi sempre gli stessi; da un anno 
all'altro potevano cambiare degli amici che venivano a trovare qualcuno di noi 
oppure i figli del direttore della miniera la quale era la figura che, rispetto 
agli altri, cambiava più spesso. Così per tanti anni ci furono Gianni e Claudia 
Boschetti e poi venne Barbara Balbusso.
C'erano poi gli Ottelli che venivano solo d'estate perché abitavano ad Iglesias 
anche se il loro padre lavorava in miniera come caposervizio "esterno" e 
probabilmente in inverno rimaneva da solo o forse con la moglie e la figlia 
Annamaria. Erano quelli che portavano sempre le novità e ci sembravano strani 
perché diversi da noi come mentalità ma soprattutto come parlata che era 
logicamente campidanese e che ci faceva ridere con il "là, tocca!"
Li chiamavamo "gli Ottelli" perchè erano tanti fratelli, anche se poi quelli che 
stavano con noi erano tre: Cicci, Luciano e Sergio. Della cordata campidanese 
faceva parte anche un altro Luciano, il nipote di sig. Villaminar, che era della 
mia stessa età e che era molto mio amico.
L'anno della influenza denominata "asiatica" Luciano(Villaminar) si ammalò nel 
mese di settembre e mamma mi mandò da lui per fargli compagnia e per far sì che 
io venissi contagiato e potessi avere l'influenza stando a casa. Le scuole 
iniziavano il primo di ottobre e forse c'era tutto il tempo; invece io non mi 
ammalai finché fui a casa ma appena arrivai a Cagliari.
La compagnia che si riuniva al completo in estate era composta dagli indigeni e 
dagli "ospiti" ma naturalizzati dell'Argentiera come gli Ottelli o i figli del 
direttore. 
Gli indigeni più o meno della mia età eravamo diversi: oltre me c'erano 
Antonello e Giambruno Peru, Ninni Col, Claudio (nostro), Gianfranco e Tonio 
Madarese, Franco Zanin, Franco Tosi, Tonio Zuddas, Tonio Mura, Andrea Porcu, 
Ninuccio Ceraulo, Salvatore Muroni, Bruno Uldank, Francesco Mura.
Le ragazze indigene erano: Nietta, Renata e Riccarda Seno, Rosetta Scanu, Maria 
Carmela Mannu, Fufolina e Marta Col, Gisella Serra, Giulia Ceraulo di giù, 
Giulia e Rosalba Ceraulo di su, Mariuccia Mura, Anna Zuddas.
Sia tra i maschi che tra le femmine alcuni erano un po' più grandi oppure 
lavoravano già e quindi stavano di meno con noi nei giorni feriali mentre di 
domenica ci ritrovavamo tutti, inizialmente in chiesa per la Messa e poi al 
mare.
La Messa era sempre un momento importante: ognuno faceva sfoggio 
dell'abbigliamento più elegante, bisognava essere lì in orario altrimenti il 
prete si adirava. Mi ricordo che le donne non potevano entrare in chiesa a capo 
scoperto e naturalmente dovevano vestire in modo non scandaloso oltre che avere 
un portamento semplice e modesto. Tutti guardavano tutti e quindi bisognava 
evitare ci fossero motivi di pettegolezzo.
Alla fine della messa, in inverno andavamo in piazza e al circolo, mentre in 
estate andavamo in spiaggia.
Moltissimi ricordi di avvenimenti più o meno importanti sono legati alla chiesa 
che, essendo l'unico punto comune a tutti e nel quale eravamo tutti uguali ( per 
fortuna non c'erano i banchi per gli impiegati distinti da quelli per gli 
operai!), diventava spesso riferimento temporale e spaziale.
La chiesa, all'Argentiera, non è stata sempre quella attuale. La prima di cui 
abbia sentito parlare era nella parte alta di Calaonano, la seconda era invece 
in piazza ma era una costruzione in legno, provvisoria, in attesa che venisse 
costruita quella definitiva ed attuale sulla collina dalla quale si vede tutta 
la baia.
Non so bene perché decisero di abbandonare la chiesa di Calaonano: ritengo che 
la ragione potesse risiedere nel fatto che era troppo lontana dal centro e 
quindi era faticoso raggiungerla.
Certo parlare della chiesa significa inevitabilmente parlare di Don Meloni che, 
casualmente, era stato sia in quella di Calaonano sia in quella attuale.
Don Meloni, Pietro Meloni, era un personaggio straordinario soprattutto per il 
fatto che era il classico scienziato pazzo. Già negli anni quaranta, quando 
appunto era nella chiesa di Calaonano, faceva parlare di sé per le sue 
stravaganze: girava sempre in moto, velocissimo, in pantaloni e con gli 
occhialoni da motociclista come si conveniva allora. Aveva, all'esterno della 
chiesa, un orticello recintato nel quale coltivava degli ortaggi che piacevano 
molto anche ad alcune capre che pascolavano da quelle parti e che in qualche 
modo riuscivano a saltare la recinzione e a mangiarsi la verdura. Don Meloni 
avvisò il proprietario delle capre affinché stesse attento e tenesse le bestie 
lontano dall'orto. Ciò non avvenne ed allora don Meloni minacciò di sparare alla 
capra che avesse trovato all'interno dell'orto. Cosa che fece puntualmente un 
giorno in cui per l'ennesima volta trovò appunto una capra che gli stava 
mangiando gli ortaggi.
Già questo esempio serve a capire come Egli non fosse il classico uomo di 
chiesa! Si diceva, d'altra parte, che i genitori lo avessero costretto a farsi 
prete perché lui non voleva. A quei tempi per le famiglie era un orgoglio avere 
un figlio prete e spesso accadeva appunto che i figli venissero costretti a 
seguire la carriera ecclesiastica anche senza la vocazione.
Era un uomo di scienza, soprattutto astronomo, ma che amava la musica, suonava 
abbastanza bene il violoncello, e non disdegnava interessarsi di elettronica 
come nella costruzione di un televisore probabilmente attraverso corsi tipo 
Radio Elettra.
Per quanto riguarda l'Astronomia, si era costruito un osservatorio tutto da sé 
che aveva prima a Sassari e che poi trasferì all'Argentiera quando venne per la 
seconda volta; c'era stato un intervallo di tempo nel quale il vescovo lo tenne 
a Sassari, mentre da noi arrivò Padre Benvenuto, un frate di Santa Maria, 
classico uomo di chiesa, un po' ipocrita, un po' falso e viscido abbastanza da 
essere poco simpatico ai più.
Don Meloni invece era un uomo pratico che difficilmente sottostava a dei 
compromessi e che ci metteva poco a mandare a quel paese chiunque, Vescovo 
compreso, il quale infatti, non appena poté, lo rimandò all'Argentiera, lontano 
da Sassari. Don Meloni accettò, credo di buon grado, perché così non sarebbe 
stato costretto ad effettuare tutte le cerimonie in pompa magna come avviene in 
città, come quelle di Pasqua o Corpus Domini o L'Ascensione, con tutte le 
processioni e i fastidi che ne derivano. Non so quanto Don Meloni fosse 
credente, anche se era prete, ma certamente riteneva che Dio non fosse tutto 
l'insieme di vizi e virtù che gli uomini, a loro somiglianza, Gli attribuivano. 
Sicuramente lo considerava un Essere pratico come era lui. Una volta nella 
predica che fece durante la Messa per la Festa di Santa Barbara, patrona dei 
minatori, disse che Santa Barbara aveva disubbidito al padre e che quindi il 
padre aveva fatto bene a tagliarle la testa! Probabilmente fu nella stessa 
occasione in cui sgridò gli operai che erano tutti in chiesa per venerare la 
Santa Patrona, dicendo loro che bisognava andare in chiesa tutte le domeniche e 
non soltanto in quella circostanza e aggiungendo che in definitiva Santa Barbara 
era la serva di Dio e quindi era come se gli operai, andando a casa del 
Direttore, ossequiassero la donna di servizio senza degnare di uno sguardo il 
Direttore stesso che invece era la persona più importante!
Un'altra volta, in occasione della benedizione delle case, dopo Pasqua, venne a 
casa di nonna Ruggiu per benedire appunto la casa. Entrò e si fermò 
nell'ingresso, lanciando l'acqua benedetta da quel punto. Alla richiesta di 
Nonna di entrare anche nelle altre stanze, Lui rispose di non preoccuparsi 
perché l'Acqua Santa era come le cimici: bastava darla in una stanza e si 
sarebbe sparsa per tutta la casa!
Tante volte nelle afose nottate estive andavamo a trovarlo e Lui era sempre 
molto contento: ci offriva da bere e poi ci faceva vedere le stelle con il 
telescopio oppure si metteva a suonare il violoncello.
Il disordine che regnava nella sagrestia era qualcosa di indescrivibile, cicche 
dappertutto, una tazzina per il caffè che non lavava mai, tanto lì " beveva solo 
lui ", ma che ormai conteneva pochissimo caffè dato che il fondo era sempre meno 
profondo, un televisore in costruzione, il violoncello, la carabina ad aria 
compressa: si faceva fatica a trovare un posto dove sedersi!
Era però una persona straordinaria: chiacchierare con lui era sempre 
piacevolissimo e si imparava sempre qualcosa dalle visite che gli facevamo.
Noi eravamo molto legati a Don Meloni: aveva celebrato il matrimonio di Babbo e 
Mamma nel 1939 usando non so bene quale artifizio in quanto Mamma era minorenne 
e nonno Ruggiu non voleva che si sposasse, per cui c'era tra di loro tanta 
confidenza sicuramente originata dalla complicità che quell'avvenimento aveva 
comportato.
Credo di non esagerare nell'affermare che Don Meloni era un grandissimo uomo.
All'uscita dalla Messa, in estate, passavamo un attimo a casa a cambiarci e poi 
subito in spiaggia.
Le spiagge erano due, ma l'unica praticabile e nella quale stavamo era quella 
alla destra del ponte, guardando il mare, perché l'altra era ricoperta da un 
fango grigio, portato dalle acque di scarico della Laveria e naturalmente non 
era possibile nemmeno camminarci. Per dire la verità talvolta qualcuno di noi 
andava proprio alla spiaggia del minerale per il gusto di coprirsi completamente 
di fango e poi ripulirsi in acqua nell'altra spiaggia.
La domenica ovviamente c'erano anche le famiglie che non potevano venire nei 
giorni feriali e una delle cose più buffe da vedere erano le persone che si 
facevano il bagno pur non sapendo nuotare e che cercavano di imparare; erano 
soprattutto le mogli degli impiegati continentali che si munivano di ciambelle 
salvagente come se fossero dei bambini e perciò se ne vedevano di tutti i 
colori, perché da un punto di vista estetico non offrivano uno spettacolo 
propriamente esaltante con i loro sederi all'aria per cercare di stare a galla, 
tra risate, grida di paura o di richiamo verso i loro mariti quando riuscivano a 
fare qualche bracciata. Così ogni domenica c'erano i vari show della signora 
Sella, della signora Zannoni, della signora Nascimbene e di tante altre che 
vedevano il mare come una cosa curiosa, lontana dalla loro cultura, dal momento 
che venivano dal nord Italia e quindi più abituate alla montagna, e che 
sicuramente avevano visto il mare per la prima volta quando erano arrivate 
all'Argentiera.
L'acqua era molto alta: già a qualche metro dalla riva non si toccava più e ad 
una distanza di qualche decina di metri la profondità era già rilevante. 
All'uscita della baia l'acqua era profonda un'ottantina di metri. Non ricordo 
però di persone annegate, all'Argentiera, probabilmente perché, ho sempre 
pensato, l'acqua subito alta incuteva paura e quindi tutti erano particolarmente 
prudenti, soprattutto le mamme che controllavano a vista i propri figli mentre 
facevano il bagno e non si fidavano nemmeno per un momento.
Il divertimento in spiaggia era sempre grandissimo sia quando facevamo il bagno 
sia quando stazionavamo sulla spiaggia tutti assieme raccontando un mucchio di 
storie. Tonio Mura portava sempre qualche camera d'aria di copertone di camion, 
naturalmente gonfia, ci si metteva dentro e si faceva rotolare fino all'acqua. 
Ogni tanto si trovava qualche tronco di legno e allora si faceva a gara a chi 
rimaneva più tempo sopra. C'erano poi i tuffi dal ponte dove spesso andavamo 
tutti e perciò era un continuo tuffarsi e risalire e poi rituffarsi senza sosta 
in un turbinio di acqua; talvolta qualcuno si tuffava in testa ad un altro che 
ancora non si era spostato ma per fortuna non succedeva mai niente di grave.
Un anno c'era stata l'invasione delle meduse: era la prima volta che ciò 
accadeva, almeno per me. La superficie del mare era letteralmente ricoperta di 
meduse! Dalla riva se ne prendevano a decine e si infilavano in un pezzo di filo 
di ferro per formare delle collane. Erano urticanti in maniera incredibile e 
praticamente tutti noi eravamo rimasti bruciati, chi più chi meno. Quello che 
aveva avuto problemi grossi era stato Giampaolo Gaia perché mentre faceva il 
bagno una medusa gli si era attaccata al collo sotto la nuca e gli aveva 
provocato una bruciatura molto estesa e molto dolorosa: credo che lo abbiano 
portato all'ospedale per questo.
L'altro divertimento era fare il bagno con il mare agitato, cosa che avveniva 
qualunque grado avesse la burrasca o qualunque altezza raggiungessero le onde. 
Bisognava calcolare il momento in cui entrare in acqua, tra l'infrangersi di 
un'onda e l'arrivo della successiva, per poi nuotare verso il largo e seguire il 
movimento delle onde cosicché ti ritrovavi in alto sulla cresta di un'onda e poi 
giù di colpo nel vuoto tra un'onda e l'altra. Il momento più difficile era però 
uscire dall'acqua perché bisognava farsi trasportare dall'onda verso la riva, 
aspettare che l'onda si infrangesse e poi uscire prima dell'arrivo dell'altra. 
Una volta calcolai male il tempo e mi ritrovai nel mezzo dell'onda quando questa 
si arrotolava su se stessa. Anch'io girai assieme all'onda, venni sbattuto 
violentemente sul fondo e trascinato via senza che potessi fare alcunché per 
fermarmi, come fossi un fuscello di paglia. Non mi feci alcuna ferita per 
fortuna ma lo spavento fu veramente grande e da allora imparai a fare meglio i 
conti.
In generale la vita scorreva abbastanza serena seppure forse un po' monotona; 
qualche avvenimento importante però si verificò nel corso degli anni, al di là 
degli infortuni mortali o comunque molto gravi che rappresentavano sempre 
qualcosa d'importante.
Il primo di cui ricordo qualcosa, seppure in maniera vaga, fu un attentato fatto 
a Padre Benvenuto, il parroco di allora, con una bomba posta all'esterno della 
sagrestia da un comunista. Erano gli anni cinquanta, credo, e le battaglie 
politiche tra i comunisti e i democristiani erano ancora all'ordine del giorno. 
I comunisti, d'altra parte, erano stati scomunicati in quanto atei e, se non 
ricordo male, la bomba era stata messa da un comunista al quale era stato negato 
il matrimonio in chiesa; avere l'esplosivo, in miniera non era certo difficile, 
anche se i controlli severissimi da parte dei Carabinieri o della Guardia di 
Finanza limitavano un po' i furti; questo materiale esplosivo peraltro veniva 
usato anche per pescare. C'erano infatti coloro che dalla miniera riuscivano a 
trafugarne un po' e, per poter avere una discreta quantità di pesci, in maniera 
veloce e con poca fatica, gettavano in mare una bomba da essi preparata che, 
esplodendo, provocava un violento spostamento d'aria e quindi l'uccisione di 
molti pesci che venivano a galla ed erano recuperati dai pescatori bombaroli.
Naturalmente questo particolare tipo di pesca era proibito, non solo perché 
veniva danneggiato l'ambiente marino spesso in maniera irreparabile, ma anche 
perché questa pratica era estremamente pericolosa per coloro che preparavano la 
bomba; spesso infatti succedeva che l'esplosivo saltasse in aria quando ancora 
era nelle mani del "pescatore". In giro infatti, all'Argentiera, si vedeva più 
di una persona senza un braccio o una mano, proprio a causa di tali incidenti; 
credo che sia morto anche qualcuno, dilaniato dalla bomba che stava preparando.
L'altro avvenimento che aveva portato l'Argentiera agli onori della cronaca fu 
l'assassinio di una bambina di dieci anni da parte di un ragazzo di diciassette 
anni, figlio del barbiere. L'episodio si sviluppò secondo uno schema direi 
classico, nel senso che tante volte si sentono episodi di cronaca nera che hanno 
uno svolgimento molto simile a questo.
La bambina era improvvisamente sparita: apparteneva ad una famiglia di basso 
rango con rapporti strani tra moglie, marito, amante, parenti dell'amante. 
Insomma una famiglia nella quale certamente la bambina non era seguita 
attentamente e anzi spesso veniva abbandonata a se stessa.
Quando inizialmente la bambina non si trovava, i genitori non si preoccuparono 
moltissimo, anche perché all'Argentiera non erano mai successi episodi di 
delinquenza, ritenendo che la figlia si fosse allontanata giocando con altri 
bambini. Quando calò il buio però si preoccuparono ed avvisarono il Brigadiere 
Sella, comandante della brigata delle Guardie di Finanza che operavano anche 
come controllori dell'ordine pubblico.
Tutti cominciarono allora a cercare la bambina per tutta la sera e credo anche 
per parte della notte. Si guardò in mare, sulla spiaggia, pensando che la 
bambina potesse essersi recata in spiaggia e poi magari essere annegata, ma 
anche nelle colline attorno alla piazza principale, al margine della quale 
abitava la famiglia della piccola.
Le ricerche furono però del tutto infruttuose: della bambina non c'era traccia.
A questo punto credo che siano stati interessati i Carabinieri della Tenenza di 
Sassari che vennero il giorno dopo con i cani poliziotto.
quella sera però avvenne anche un altro fatto che fece pensare alla presenza di 
un qualche maniaco e delinquente venuto chissà da dove: il barbiere si recò dal 
brigadiere Sella per denunciare il fatto che il figlio, appunto la sera dopo 
l'imbrunire, era stato avvicinato da un brutto ceffo che l'aveva minacciato con 
il fucile, lo aveva fatto spogliare, lasciandolo in mutande, e poi si era 
dileguato nel buio. Il ragazzo era ritornato a casa molto scosso e aveva 
raccontato tutto al padre. La presenza di questo bandito venne automaticamente 
collegata alla sparizione della bambina e perciò il brigadiere Sella e il medico 
dott. Gaia si recarono a casa del ragazzo per avere maggiori informazioni. Il 
racconto però era subito sembrato troppo preciso e pieno di particolari che dato 
il buio e lo spavento presumibile il ragazzo non avrebbe dovuto ricordare; 
inoltre il dott. Gaia che lo aveva visitato pensò che in realtà il ragazzo non 
fosse terrorizzato come ci si sarebbe aspettato in una situazione del genere.
Il brigadiere Sella decise allora di portare il ragazzo nella cella della 
caserma e di interrogarlo a dovere. Secondo i maligni usò le maniere forti, 
fatto sta che il ragazzo confessò di avere ucciso la bambina ma non volle dire 
né dove fosse il corpo né dove avesse nascosto i vestiti che aveva detto 
essergli stati tolti dal brutto ceffo; si pensò che forse aveva confessato per 
paura di prendere altre botte.
L'indomani i carabinieri sguinzagliarono i cani poliziotto dopo aver fatto loro 
annusare degli indumenti del ragazzo ed essi incominciarono a percorrere varie 
strade dove presumibilmente egli era passato.
La mattina, domenica, mentre eravamo nel piazzale della chiesa si sentirono 
delle urla provenire dalla piazza: qualcuno gridava che era stata trovata la 
bambina. In effetti di lì a poco le forze dell'ordine si recarono in un anfratto 
vicino alla falegnameria, a due passi dalla piazza e trovarono il corpo senza 
vita della piccola.
Lo sgomento fu grande e tutti ci chiedemmo come fosse stato possibile che un 
fatto così grave fosse accaduto proprio lì, praticamente sotto gli occhi di 
tutti, senza che nessuno si fosse accorto di niente.
Intanto i cani poliziotto continuavano a percorrere gli itinerari che aveva 
seguito l'assassino, fino a quando trovarono gli indumenti che erano stati 
nascosti tra le rocce in mare vicino al ponte, dalla parte della spiaggia del 
minerale. A quel punto fu evidente a tutti che l'assassino, dopo aver ucciso la 
bambina, si recò al mare, si spogliò e tornò a casa all'imbrunire raccontando la 
storia della aggressione subita. 
In realtà con i ricordi di tante persone poi si riuscì a ricostruire tutti i 
movimenti del ragazzo dopo l'omicidio: egli ritornò alla barberia dove fece la 
barba a Franco Tinti che se la prese con lui perché gli tremava la mano e 
appariva nervoso, dopo andò al dopolavoro e si mise a giocare a biliardo ed 
infine, all'imbrunire, andò via e, presumibilmente, si recò al mare per 
spogliarsi ed inscenare la finta aggressione.
Rimanemmo molto scossi per tanti giorni ma poi piano piano la vita ritornò a 
scorrere normalmente.
Un altro avvenimento che scosse le coscienze delle "persone per bene" fu 
l'arrivo di un'amica di Renata, Marika, che, eravamo nell'estate di un anno fine 
anni 50 o inizio anni 60, non ricordo bene, quando andava al mare indossava, 
come costume da bagno, il bikini! Apriti cielo! Le signore, mogli 
degl'impiegati, incominciarono a gridare allo scandalo e anche tra gli uomini, 
quelli più puritani (ed ipocriti) protestarono soprattutto perché in spiaggia 
c'erano i bambini che non potevano assistere ad uno spettacolo così osceno; e 
giù tutta la serie classica di frasi come: "dove andremo a finire", "non esiste 
più il pudore" , "che tempi", "i giovani di oggi non hanno un minimo di 
rispetto" e così via. Al circolo non si parlava d'altro e alcune signore, data 
la posizione gerarchica dei loro mariti, fecero un'interrogazione al Direttore 
per chiedere che intervenisse per porre fine a quella situazione insostenibile. 
Anche la Guardia di Finanza fu interessata al problema ma poi non successe nulla 
e piano piano la cosa perse d'importanza anche perché Marika dopo un po' andò 
via. In realtà Marika dava fastidio non solo per il bikini ma anche per il suo 
atteggiamento un po' spavaldo e spregiudicato che non era quello accettato 
all'Argentiera dove ancora le ragazze erano morigerate e rispettose del pudore e 
dei valori di allora oltre che timorate di Dio.
L'ultimo avvenimento particolare che io ricordo avvenne diversi anni più tardi 
quando la figlia di un impiegato di alto rango si mise ad amoreggiare con un 
finanziere di mare. La vicenda fece scalpore non solo perché i due non facevano 
molto per nascondersi, cosa già di per sé disdicevole, ma soprattutto perché la 
differenza di classe sociale tra i due era notevole: lei figlia di un dirigente 
della miniera, studentessa universitaria(?) e comunque prossima laureata e lui 
un ragazzotto, finanziere semplice, sì belloccio ma senza arte né parte. 
Sembrava evidente a tutti che doveva trattarsi solo di pura attrazione sessuale 
che allora non poteva essere tollerata. Effettivamente la ragazza aveva un 
atteggiamento, un portamento e caratteristiche tali da far pensare al sesso non 
appena la si guardava, per cui la relazione poteva avere senso solo come un 
qualcosa di morboso e quindi scandalosa, dal momento che altrimenti quei due non 
avrebbero avuto alcuna possibilità di poter instaurare una relazione per via 
della loro differenza di classe sociale. La situazione rischiava di diventare 
ingovernabile: la madre della ragazza intervenne affinché il finanziere venisse 
trasferito istantaneamente soprattutto dopo che i due, così dissero le persone 
bene informate, avevano osato baciarsi alla luce del sole sotto la scalinata che 
porta alla chiesa! Scandalo nello scandalo. Non so poi cosa successe, ma la 
vicenda, anche questa, come é logico, si sgonfiò e non se ne parlò più. Il 
finanziere probabilmente se ne andò alla fine dell'estate, la ragazza riprese a 
studiare e quindi andò via e la vita ricominciò a scorrere con i soliti ritmi di 
tutti i giorni, in attesa probabilmente di qualche altro sussulto.
Certo, viste alla luce di oggi queste cose appaiono ridicole, ma allora facevano 
parte del modo di pensare comune, così come diverso da oggi era il cosiddetto 
comune senso del pudore.
Gli anni passavano e piano piano diventavamo grandi: Nietta si diplomò e 
incominciò ad insegnare nelle scuole serali e dopo tre anni mi diplomai anche 
io.
In quegli anni già si parlava della chiusura della miniera. Prima erano delle 
voci, qualche sentito dire, poi dei segnali più importanti, l'arrivo dell'ing. 
Meloni che si diceva sarebbe stato quello che avrebbe chiuso la miniera. Babbo 
lavorava ora al magazzino. quel lavoro gli creava grossi problemi perché 
riteneva che la responsabilità fosse troppo grande e che egli non fosse 
all'altezza del compito. In realtà succedeva che una persona che lavorava al 
magazzino prima che arrivasse lui con il quale Babbo era amico e al quale si 
rivolgeva per chiedere aiuto nel primo periodo, si rivelò un falso che dava dei 
consigli sbagliati e poi andava dal Direttore a dire che assolutamente Babbo non 
andava bene per quel lavoro e che bisognava toglierlo da lì. Per fortuna il 
Direttore capì la situazione anche perché aveva una grande stima di Babbo 
riguardo l'onestà, l'impegno e le capacità, per cui trasferì quella persona e da 
quel momento Babbo poté lavorare serenamente dimostrando anche in quel caso il 
suo valore, tanto che venne mandato anche in alcune miniere dell'Iglesiente 
quando queste chiusero e si dovettero azzerare i magazzini.
Il primo lavoro che feci mi fu commissionato proprio dall'ing. Meloni che mi 
diede l'incarico di rilevare l'impianto elettrico esterno che alimentava le 
abitazioni di tutta la miniera. Poi capii che questo lavoro serviva, assieme a 
tanti altri, a rilevare la situazione patrimoniale necessaria alla 
valorizzazione della miniera in vista della vendita conseguente alla chiusura.
Si fecero diversi tentativi per scongiurare la chiusura. Lo stesso ing. Meloni 
rifiutò inizialmente quest'idea perché si rendeva conto che tale chiusura 
avrebbe significato la perdita del lavoro per quasi un migliaio di persone. 
Cercò di impostare un serio programma per la ricerca di altri filoni ricchi di 
minerale, e verificando, attraverso gli studi del terreno, che sotto il mare 
dovevano esserci dei giacimenti particolarmente ricchi. Per poter sfruttare 
questi giacimenti però gli investimenti sarebbero stati molto grandi e la 
Società non aveva alcuna intenzione di spendere tanti soldi in qualcosa che non 
dava certezza da un punto di vista economico data la mutata situazione 
internazionale che già vedeva un progressivo aumento degli scambi commerciali 
tra i paesi europei. Ciò significava che, pur con tutta la buona volontà, il 
costo del minerale estratto in Sardegna e portato in Continente dove c'erano le 
industrie manifatturiere non avrebbe mai potuto competere con quello di uno 
stesso minerale proveniente dai paesi europei in quanto per questi ultimi 
l'incidenza delle spese di trasporto era sensibilmente inferiore. La fine 
dell'Argentiera e di tutte le altre miniere sarde era perciò segnato.
Tra le iniziative intraprese in quel periodo per scongiurare la chiusura ricordo 
il ricorso alla stampa nazionale oltre a quella locale. Il mensile Panorama si 
interessò molto al problema con tanti articoli e tante fotografie ma anche 
questo non servì.
La nostra famiglia fu tra le ultime a lasciare la miniera con un grande 
dispiacere di Babbo e Mamma.
Quando questo avvenne io lavoravo già e stavo a Sassari a casa di Nietta che si 
era sposata proprio l'anno del mio diploma.
 
Castelmeteo. Un sito dedicato a Castelvetro di Modena, meteorologia, arte, gallerie di foto antiche, moderne e la storia dell'antica fornace. A cura di Vinicio Cavallini
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